In tempi di “crisi dello stato” forse c’è davvero bisogno che alcuni Paesi scompaiano per far sì che il sistema statuale stesso non crolli (o perlomeno non lo faccia troppo rapidamente e violentemente).
I recenti tragici fatti di Bruxelles hanno rievocato il concetto di “stato fallito”, citato in diversi articoli e riflessioni sul Belgio e sull’incapacità da parte della sua forza pubblica di vigilare su una minaccia, quella jihadista, ormai nota da tempo a tutti. D’altra parte, è curioso come per la prima volta si sia usato il termine in riferimento a uno Stato prospero economicamente e – cellule jihadiste a parte – relativamente stabile. Solitamente lo “stato fallito” indica un Paese sull’orlo del collasso, vuoi per una guerra civile, vuoi per un’economia disastrata, un paese il cui apparato governativo non è più in grado di garantire i servizi basilari, a partire dal servizio principe per la quale storicamente lo stato nacque: la protezione dei suoi cittadini dalla violenza, interna o esterna che sia. Secondo tali logiche esiste anche, dal 2005, un indice analitico dedicato proprio al livello di rottura degli Stati noto come “Fragile States Index“.
In un mondo sempre più instabile e competitivo, alcuni Stati mostrano le proprie debolezze e, seppur risulti prematuro parlare di “morte dello Stato”, forse la dipartita di alcune nazioni non costituirebbe poi quel dramma, anzi, potrebbe persino rendere il mondo un posto un po’ meno soggetto alla violenza (a patto naturalmente che qualunque cosa si decida di ideare al loro posto sia dotata di maggior senso).
Ecco dunque la prima parte di una lista di Stati le cui prospettive di tenuta sono così compromesse che forse è meglio pensare più a come “abbatterli” che a come sforzarsi di tenerli artificialmente in piedi. Alcuni risponderanno a pieno ai canoni classici dello “stato fallito”, altri saranno un po’ meno riconoscibili, ma non meno scricchiolanti. Il criterio che si cercherà di utilizzare sarà dunque uno, soltanto in apparenza semplice: la capacità
- BELGIO
Il “Belgium Bashing“ da parte dei media internazionali di questi giorni è in parte il solito copiarsi a vicenda una volta trovato il tormentone da proporre al pubblico di fronte a un fatto di così grave importanza. Ciò non toglie che in, buona parte, la critica sia assolutamente fondata, almeno sotto il profilo geopolitico. A differenza di quanto riportato in diverse analisi tuttavia, il fallimento a livello di governance interna e gestione delle crisi non trae tanto origine dalla natura plurietnica (vedasi la Svizzera), né dall’essere un paese di tradizione fortemente “libertaria” (vedasi i vicini olandesi), ma perlopiù dall’essere un paese che, come ha mostrato il quasi biennio senza un governo, ha ben poca voglia di governare e governarsi; dove fiamminghi e valloni, ormai dediti all’autogestione, restano uniti in un placido matrimonio senza amore retto dall’inerzia. Un modo di non governare che magari può andar bene quando si tratta di gestire l’ordinaria amministrazione, ma che non funziona di fronte alle crisi interne e non. Un problema candidamente ammesso dalle stesse forze dell’antiterrorismo belga, mal organizzate nonostante anni, anzi decenni, di avvertimenti ricevuti sulla minaccia jihadista che covava all’interno del paese. Le forze di sicurezza belga non solo sono poche, ma sono per giunta atomizzate in sei forze di polizia indipendenti con tre lingue parlate: una struttura resa ancor più farraginosa da una burocrazia statale così contorta che sarebbe stata senza dubbio l’orgoglio del più sadico funzionario bizantino. Il Belgio d’altra parte risente del suo essere una creatura statuale “artificiale”, concepito da Napoleone (che come ben sappiamo anche noi italiani “cisalpini” aveva un debole per i nomi storicizzanti) e che nacque nel 1830 come stato cuscinetto cattolico tra Francia e area tedesca perlopiù a causa dell’incapacità dei Paesi Bassi (che erano lo stato cuscinetto originariamente designato dal Congresso di Vienna) di governare sulle proprie regioni cattoliche meridionali. Uno stato nato per caso, dove pochi decenni dopo la sua fondazione il sovrano poteva dilettarsi in sanguinose avventure coloniali a dispetto del suo stesso regno e la cui tenuta di fronte alle gravi crisi europee del ventesimo Secolo si è dimostrata con le inesistenti prestazioni di governo ed esercito belga contro la duplice invasione della Wehrmacht durante le due guerre mondiali. Merito in entrambi i casi della convinzione belga che un’ostentata neutralità sarebbe bastata a preservare il paese dalla guerra. Un’inquietante parallelo con il Belgio attuale, che per decenni chiuse più di un occhio (per aprire la mano a copiosi fondi “culturali” sauditi) riguardo personaggi a dir poco ambigui per via della convinzione che sarebbe stato al riparo da qualsivoglia attacco interno.
- Bosnia-Erzegovina
A ulteriore dimostrazione che solitamente gli Stati creati “a tavolino” tendono a non funzionare abbiamo, sempre in Europa, la Bosnia. Nata nel 1995 con gli accordi di Dayton nel tentativo di dare un nuovo volto ai Balcani insanguinatisi dalla guerra civile yugoslava, la Bosnia riprende a grandi linee i confini di un omonimo vecchio regno medievale slavo facendosi però forte di essere il contenitore di riferimento per i bosgnacchi, gli slavi di religione musulmana perseguitati a riprese da serbi e croati. La distribuzione tra questi tre popoli tuttavia è per nulla distinta geograficamente e la Bosnia, per funzionare, deve dotarsi da subito di un forte assetto federale. I primi anni del paese furono tuttavia dominati dalla componente bosgnacca sotto la guida di Alijia Izetbegovic, con croati e serbi (che insieme formano la maggioranza della popolazione), tenuti ai margini del neonato apparato statale. Per evitare dunque che la Bosnia a sua volta ospitasse in piccolo i conflitti inter-etnici della guerra civile iugoslava, la comunità internazionale ha fatto sì che Sarajevo avesse sempre meno poteri rispetto alle tre Repubbliche che costituiscono lo Stato. Il risultato è che oggi la Bosnia è sì un paese al momento pacificato, ma il governo centrale è nei fatti inerte. La “Repubblica Serba”, che racchiude metà del paese e un terzo degli abitanti e ospita la componente serba, in particolar modo non ne vuole proprio sapere di prendere ordini da Sarajevo e se proprio non può ricongiungersi a Belgrado, si accontenta di paralizzare la sua improvvisata quanto detestata “madrepatria”. In altre parole lo Stato bosniaco terrà nella misura in cui continuerà a non governare, rendendo la nei fatti la Bosnia un nuovo Belgio balcanico (anche lì il sottobosco jihadista non manca affatto), ma con molto meno welfare e quindi più margine di strascichi violenti laddove scoppiassero nuove crisi etniche (e no, la condanna a 40 anni per genocidio dell’ex presidente della “Repubblica Serba” di Bosnia e macellaio di Sebrenica Karadzic, non è stata affatto occasione di confronto e riconciliazione nazionale tra bosgnacchi e serbi).
- Macedonia/FYROM/nome a caso che non urti la sensibilità di qualche suo vicino
Se uno Stato non è neppure in grado di darsi il nome che desidera significa che qualche problemino d’identità ce l’ha. Questo è il caso della Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, che avrebbe voluto chiamarsi Macedonia e basta, ma che in cambio del riconoscimento internazionale ha dovuto sottostare ai capricci della Grecia che non l’ha permesso. D’altra parte il paese è un bizzarro frullato nato dal ridimensionamento delle ambizioni bulgare durante la Seconda Guerra Balcanica (e bulgari sono sostanzialmente i “macedoni” slavi che costituiscono la maggioranza del paese). Una cellula tenuta in grembo dalla Serbia prima e dalla Yugoslavia poi per quasi un secolo, poi schizzata via durante il crollo di quest’ultima negli anni Novanta. Con una nutrita minoranza albanese concentrata ad Ovest desiderosa d’indipendenza sull’esempio dei cugini del vicino Kosovo e praticamente isolata da vicini che al più la disgustano, la Macedonia oggi è un paese in mano alla corruzione e senza alcuna prospettiva per il futuro a parte tentare di entrare nella UE (che per ora tuttavia se ne guarda bene) nella speranza di cristallizzare il proprio neanche tanto latente conflitto etnico, che rischia di piombare nel caos alla prima crisi nazionale come quella migratoria che ne interessa i confini.
- SIRAQ
“Siraq” è un neologismo attualmente utilizzato per indicare la realtà comune che stanno vivendo Siria e Iraq, entrambe caratterizzate da sanguinosi conflitti interni, da un’emigrazione di massa e dalla presenza dell’Isis su entrambi i lati del confine. Ad accomunare questi due sfortunati stati non è tuttavia solo il loro tragico presente ma le condizioni che hanno consentito che lo stesso si realizzasse. Siria e Iraq sono entrambi nati dopo il crollo dell’Impero Ottomano quale espressione degli interessi imperiali francesi e britannici che sui confini delimitarono le rispettive sfere d’influenza. Entrambi gli Stati hanno al loro interno un mosaico di etnie e comunità religiose oggi in conflitto tra di loro, distribuite in modo del tutto irregolare. Dopo aver tentato, e fallito, la via del socialismo autoritario panarabo dei “Ba’th”, oggi queste tensioni latenti sono esplose giungendo alla tragica condizione attuale. Comunque vadano le rispettive guerre civili, sembra ormai chiaro a analisti e attori globali che Siria e Iraq non potranno mai tornare ai confini tracciati da Francia e Regno Unito un secolo prima.
- PAKISTAN
Prendete una regione con una delle culture più antiche della storia umana, dove per millenni regni e imperi sono sorti e caduti, con migliaia di lingue parlate al suo interno. Prendete ora un enorme cancellino e spazzate via tutto creando, da queste regioni antichissime, uno Stato mai sentito prima di allora il cui solo collante è la comune appartenenza religiosa dei suoi abitanti. Ecco a voi il Pakistan, nato durante la decolonizzazione britannica del subcontinente indiano quale terra “dei puri” (come recita etimologicamente il nome), progetto politico nato dopo il fallimento di Gandhi di un’India unita e volto ad accontentare il desiderio degli indiani di religione musulmana sunnita di affrancarsi non solo dai britannici, ma anche dai loro fratelli di religione indù. Il Pakistan tuttavia ha visto fallire nella sua giovane storia qualunque tentativo di formazione di un’identità nazionale che potesse riunire comunità etniche estranee l’una dall’altra (perlopiù un misto di demonizzazione del vicino indiano, rivendicazione del Kashmir e integrazione di elementi islamisti conservatori nell’architettura statale). Dopo la defezione dei bengalesi del fu “Pakistan Orientale”, oggi Bangladesh, neanche la contiguità territoriale di ciò che resta del Pakistan sembra riuscire a unire le quattro grandi comunità etniche principali del paese: pashtun, punjabi, sindhi e balochi. Quest’ultimi, situati nell’estremo ovest e più affini all’area persiana che indiana, sono da tempo in aperta lotta contro il governo di Islamabad per la propria indipendenza. A nord, la lotta dei talebani “pakistani” è perlopiù la lotta dei pashtun, supportati dai talebani afghani perlopiù, pure loro, di etnia pashtun. La spinta verso l’islamismo conservatore d’ispirazione saudita data dal paese per connettere le sue comunità etniche più che fornire motivi d’unione fornisce terreno fertile per jihadisti e attacchi terroristici quale l’ultimo a Lahore per Pasqua, così che anche le proprie minoranze religiose, in particolar modo la nutrita compagine sciita, tendono a disaffezionarsi sempre più verso il progetto politico pakistano. Secondo le ultime stime demografiche il Pakistan, paese già incredibilmente popoloso da quasi duecento milioni di abitanti, potrebbe raddoppiare la propria popolazione nell’arco di questo secolo laddove i progetti di controllo delle nascite fallissero mantenendo costanti gli attuali tassi di crescita. Gestire una tale massa di popolazione risulta già difficile per Stati relativamente pacificati al proprio interno (non per forza con metodi esclusivamente pacifici, vedasi la Cina), quali concrete possibilità avrebbe il Pakistan, già afflitto da due grossi conflitti interni, di resistere alla pressione centrifuga di parte delle sue comunità etniche?