La vittoria dell’europeista Aleksandar Vucic in Serbia, la crisi politica in Macedonia e la gestione difficoltosa dei flussi migratori al confine con la Grecia, tutte questioni che stanno spingendo la penisola balcanica a trovare soluzioni congiunte per la gestione di migliaia di profughi già presenti sul territorio, nella speranza che si avvicini l’obiettivo dell’adesione all’Unione Europea.
La questione dei migranti, la crisi economica, l’avanzata (inaspettata?) delle forze politiche europeiste e la pressione per l’ingresso ufficiale e accelerato nell’Unione. Queste sono solo alcune delle contraddizioni che vedono contrapporsi i “risorti” nazionalismi europei con il desiderio di far parte dell’Ue, portato avanti dalla quasi totalità delle nazioni balcaniche.
Per capire più a fondo cosa sta succedendo in quella che fino a qualche anno fa era la “periferia orientale”, bisogna capire come si stanno muovendo politicamente i singoli stati che, mai come oggi, sentono l’esigenza di entrare a far parte dell’Europa anche, e soprattutto, per far fronte alle problematiche che da soli non sono in grado di affrontare.
Il paese che più di tutti si sta muovendo in questa direzione è la Serbia, reduce dalle elezioni politiche dello scorso fine settimana, che hanno chiamato i cittadini a rinnovare l’Assemblea nazionale.
Si temeva un fragoroso balzo in avanti del Partito radicale serbo guidato dall’ultranazionalista Vojislav Seselj, che però si è fermato a un misero 9,9%, lasciando così campo libero al Partito Progressista del premier uscente Aleksandar Vucic, che ha stravinto al primo turno con il 52,1% dei consensi. Al secondo posto si piazza, con meno del 12%, il Partito Socialista.
La vittoria di Vucic ha, nei fatti, dato una forte accelerata ai negoziati tra la Commissione europea e il governo di Belgrado che, abbandonando anche ogni rivendicazione territoriale sul Kosovo, conta di concludere le trattative (avviata nel 2015) e la chiusura dell’accordo entro il 2020, facendo diventare così la Serbia il 29esimo Stato membro dell’Unione.
Situazione ben diversa, invece, in Macedonia dove da ormai quasi venti giorni la popolazione è scesa nelle piazze di tutte le città per protestare contro le politiche troppo “blande” in tema di giustizia portate avanti dal presidente della Repubblica Gjorge Ivanov, reo di aver graziato i vertici dei partiti coinvolti in un’inchiesta sullo scandalo delle intercettazioni, iniziato nel 2015.
Questa continua instabilità, cui va sommata anche la difficoltosa gestione dei migranti sul confine greco-macedone, non giova certamente al processo di adesione dello stato balcanico all’Unione europea, convalidato nel maggio del 2004 e bloccato l’anno successivo dopo i continui ripensamenti della Grecia, che si rifiuta di riconoscere la scelta del nome “Macedonia” alla nazione confinante (è una storia vecchia e interessante che potete leggere qui).
A pesare non solo la disputa diplomatica tra i due Stati, ma anche la gestione delle rotte balcaniche dei migranti provenienti dalla Turchia e dalla Siria che passano dalla Repubblica macedone per raggiungere l’Europa, nonostante la chiusura delle frontiere esterne.
Una situazione, quella documentata anche dalla pesante criticità del campo profughi a Idomeni, che rischia di ledere i fragili accordi siglati tra Unione e Turchia. Quest’ultima sembra continuare a fare “orecchie da mercante“, non impedendo la partenza di migranti e richiedenti asilo dalle sue coste. I Balcani si stanno quindi trasformando sempre di più in un “imbuto di vite umane”.
Per evitare nuovi accessi, alcuni Stati hanno anche portato avanti soluzioni drastiche: Slovenia e Croazia, dopo aver seguito l’esempio dell’Austria, hanno letteralmente chiuso e bloccato le frontiere e i confini nazionali obbligando così i rifugiati a trovare vie e percorsi alternativi.
Un’embrionale soluzione è stata avanzata dai ministri della Difesa di Croazia e Albania che, la scorsa settimana, si sono incontrati per studiare una strategia comune al fine di arginare il fenomeno almeno su base regionale, lasciando però aperte le porte a Montenegro, Bosnia e Serbia, anche loro chiamati a fare la loro parte, soprattutto in un’ottica di integrazione delle politiche migratorie comunitarie.
di Omar Porro