Il Regno Unito lascia l’Europa

Uk_Flag
a cura di Stefano Crippa e Omar Porro
Alla fine la novità, la voglia di cambiamento e, probabilmente, il crescente desiderio di autonomia e di autodeterminazione hanno prevalso rispetto agli ideali del progetto europeo. Dalla scorsa notte, il popolo britannico ha deciso che non vorrà più avere a che fare con Bruxelles, tantomeno con le politiche (considerate soffocanti) “imposte” a Londra. Una separazione i cui effetti si vedranno non prima dei prossimi anni.

E’ stata una notte lunga per il continente, ma alla fine la Gran Bretagna ha scelto: addio UE e addio Bruxelles. Fino all’ultimo minuto si è pensato che il Remain avrebbe avuto la meglio, che la logica dell’unità avrebbe superato le paure e le perplessità sollevate tanto dai populisti guidati da Nigel Farage, quanto da Boris Johnson (che si vede ora spianata la strada verso la leadership del Partito conservatore), ma per il il 51,9% degli elettori (contro il 48,1) il Regno Unito è chiamato ad aprire ufficialmente i canali per l’uscita dall’Unione.

“Il popolo britannico ha chiesto l’uscita dall’Unione e questa decisione va rispettata. Dobbiamo prepararci per un nuovo negoziato con l’Europa – queste le parole del premier dimissionario, David Cameron – Faccio un passo indietro e non sarò io a gestire i nuovi accordi con Bruxelles, ma sarà compito del futuro Governo”.

Alla fine il giorno è arrivato. E l’esito del referendum lascia perplessi anche i sostenitori del Leave. Sono stati oltre 46 milioni gli inglesi chiamati alle urne giovedì 23 giugno, per scegliere se rimanere o uscire dall’Unione europea. Una decisione per nulla semplice, e per nulla scontata, che ha visto gli opinion pool dare un sostanziale testa a testa tra le due fazioni fino al termine della consultazione elettorale.

Proprio per evitare la deriva nazionalista, che alla fine ha avuto comunque la meglio sulla moderazione e la ragionevolezza degli europeisti britannici, parte sia dei Conservatori che dei Laburisti hanno consigliato di votare per il “Remain in the Eu“, puntando molto l’attenzione sui vantaggi che l’intera nazione avrebbe avuto nel rimanere parte del progetto europeo.

"Quello che non ci uccide, ci fortifica", questa l'opinione di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo / © European union
“Quello che non ci uccide, ci fortifica”, questa l’opinione di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo / © European union

A nulla sono valse le prese di posizione dei leader dei 28 Stati membri, così come a niente è servito l’appello all’unità del continente, avanzato dal presidente del Consiglio europeo.

“Questo è un momento storico, siamo pronti a questo scenario negativo; l’Unione europea è decisa a mantenere l’unità anche se saremo in 27 – ha dichiarato, a caldo, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – Non ci sarà un vuoto normativo fino a quando non ci sarà l’uscita ufficiale, nel frattempo l’Uk resterà soggetta al diritto comunitario. Quello che non ci uccide, ci rende più forti”.

Le motivazioni, a favore della prosecuzione della love story tra Londra e Bruxelles, sono  riconducibili a quattro macroaree.

La prima, economica, è assimilabile ai vantaggi che il Regno Unito ottiene restando  all’interno del mercato economico europeo. L’export all’interno dei 28 paesi, frutta oggi alla Gran Bretagna, ben 25 miliardi di sterline annui, che permettono a Londra di essere uno dei mercati finanziari e commerciali più floridi dell’intero continente, anche grazie alla possibilità di un accesso di oltre 500 milioni di persone.

Il secondo punto, legato alla politica interna, sarebbe la garanzia per la Gran Bretagna di frenare le mire separatistiche e secessionistiche di Scozia e Irlanda del Nord che hanno tutto l’interesse a rimanere all’interno dell’Unione. Soprattutto Belfast, e l’intera Eire, potrebbero perdere la possibilità di viaggiare e spostarsi liberamente anche nella vicina Repubblica d’Irlanda. Eventualità che rende più che probabile una consultazione per l’indipendenza dell’Ulster britannico.

“Gli scozzesi vedono il loro futuro come parte integrante dell’Unione europea”, questo è stato il commento, lecito e scontato, del premier di Edimburgo Nicola Sturgeon che ha già annunciato un nuovo referendum per slegarsi da Londra.

Nicola Sturgeon, il Primo ministro scozzese ha annunciato un nuovo referendum / © Reuters
Nicola Sturgeon, il Primo ministro scozzese ha annunciato un nuovo referendum / © Reuters

Due punti, strettamente collegati tra di loro, riguardano la gestione delle minacce terroristiche e di sicurezza, ma anche il  ruolo che il Regno Unito rivestirà a livello geopolitico globale, che con l’uscita dall’Unione sarà ridimensionato, isolato e soggetto ugualmente a molte delle regole europee senza avere più la possibilità di far valere le sue ragioni.

Dunque, diversi commentatori politici ed economici in queste ore, come nelle scorse settimane, delineano foschi scenari per l’Europa del futuro e continuano a presentare la Brexit come una tragedia per il continente europeo.

Ma siamo sicuri che in effetti questo sia necessariamente un male?

La Gran Bretagna è entrata a far parte della Comunità europea solo nel 1973, dopo che per due volte de Gaulle pose il veto sull’ingresso del Regno Unito nel progetto di integrazione. Certo, la scelta di De Gaulle era giustificata dalla volontà di conservare il primato francese nella nuova costruzione europea, ma non solo. Egli conosceva bene i cugini d’oltre Manica, che non si sono mai sentiti europei, e che non hanno mai creduto nel progetto di integrazione europea.

E’ interessante analizzare quelli che potrebbero essere i vantaggi che la Brexit potrebbe portare ai 27 Paesi che rimarranno all’interno dell’Unione.

Primo, l’opportunità per gli Stati europei di realizzare pienamente il sogno di una vera e propria unione politica, giacché tra gli obiettivi con cui i britannici decisero di sedersi al tavolo di Bruxelles figurava proprio la volontà di essere una quinta colonna dell’asse angloamericano nell’Ue oltre a quella di impedire la costituzione di un vero e proprio stato confederale europeo.

Secondo, benché la Gran Bretagna non abbia mai aderito formalmente all’area Schengen, è innegabile che fino ad oggi i suoi cittadini abbiano potuto viaggiare liberamente per motivi di studio e lavoro su tutto il continente. Allo stesso modo, anche le merci britanniche hanno goduto dei vantaggi del mercato unico europeo permettendo al Regno Unito di esportare beni e servizi per oltre 45 miliardi di sterline all’anno.

Con la Brexit, tutto ciò non sarà più possibile (o non lo sarà gratuitamente): un problema per la Gran Bretagna, un’opportunità invece per gli altri principali Stati europei, che potranno occupare gli spazi industriali, commerciali e professionali lasciati liberi da inglesi, scozzesi, gallesi e Nord-irlandesi; al netto di eventuali proposte referendarie  e separatistiche da parte di alcune regioni.

Infine, non bisogna dimenticare che Londra nelle ultime decadi è stata la piazza finanziaria europea per definizione. La City, con i suoi grattacieli futuristici e il suo milione di occupati, rappresentava ormai da anni l’immagine di una Unione europea ricca, florida e potente, ancora non integrata sotto il profilo politico, ma capace attraverso la finanza di proiettare la propria potenza in ogni angolo del globo.

Tutti i paesi extraeuropei (dalla Cina al Giappone) desiderosi di investire nell’Unione indirizzavano i loro capitali verso l’aperta e cosmopolita Londra. E ora? Continuerà ad essere così? Vi saranno ripercussioni? Su quali piazze finanziarie saranno ora indirizzati i cospicui “investimenti esteri” che l’Ue è in grado di attirare? Parigi, Francoforte, di sicuro, Milano?