Dopo mesi di lunghi negoziati e faticosi compromessi, Stati Uniti e Israele hanno firmato un nuovo accordo militare, molto importante se guardiamo i numeri, ma che contiene qualche insidia per Israele, e che potrebbe influenzare la campagna presidenziale statunitense.
In base all’accordo, che entrerà in vigore nel 2019 e avrà durata decennale, gli Stati Uniti forniranno ad Israele 3.8 miliardi di dollari annui in assistenza militare, per un totale di 38 miliardi di dollari, dei quali 33 miliardi destinati all’acquisto di materiali e munizioni e 5 miliardi destinati invece alla difesa missilistica. L’accordo comporta pertanto un aumento non irrilevante in termini di supporto finanziario, se confrontato con i 30 miliardi previsti dall’accordo attualmente in vigore e prossimo alla scadenza.
C’è però chi fa notare, come Nehemia Shtrasler su Haaretz, che in realtà tutto il “pacchetto” sia addirittura punitivo nei confronti di Israele, e che sia una vittoria di Obama su Netanyahu, per tre ragioni:
- a livello quantitativo questi aiuti sono solo nominalmente più elevati rispetto a quelli forniti con l’accordo precedente, scrive Shtrasler che “The new amount, $3.8 billion a year, is significantly lower in real terms“, aggiungendo che “It’s not worth more than $3.2 billion a year, according to a capitalization rate of 20 percent over 10 years“;
- l’accordo obbliga Israele a rifornire il proprio apparato militare solo ed esclusivamente di forniture statunitensi, con la conseguenza che “The new agreement phases out that agreement, which is a rough deal for the big defense companies, and a deathblow for dozens of smaller companies and the subcontractors of the big companies“;
- un articolo dell’accordo vieta ad Israele di chiedere formalmente al Congresso Usa di qualsiasi tipo di aiuto che esuli da quello già concordato in questo pacchetto, almeno per i prossimi due anni. Un senatore Usa molto vicino alle posizioni israeliane, Lindsey Graham, ha addirittura chiesto a Netanyahu come potesse accettare un accordo che neutralizzi la possibilità del Congresso di aiutare in altri modi Israele. Netanyahu non ha risposto.
Israele si è dunque impegnata a non cercare di ottenere ulteriori finanziamenti da parte del Congresso americano durante i prossimi anni, e a limitare le spese nell’industria militare israeliana per dare invece priorità all’industria militare americana. Questo accordo – noto come Memorandum of Understanding (MOU), qui nella sua versione integrale – rappresenta comunque il più grande pacchetto di supporto militare mai approvato dagli Stati Uniti nei confronti di un Paese alleato. Netanyahu da parte sua, ha anche dovuto rinunciare alla propria iniziale pretesa di 45 miliardi di dollari in dieci anni.
Il MOU appena siglato rappresenta dunque un’importante pietra miliare nelle relazioni Washington-Tel Aviv, ed è un’utile lente attraverso cui leggere l’approccio di Obama e Bibi, anche in prospettiva alle ormai imminenti elezioni americane.
Dal lato di Obama, più analisti ed esperti hanno evidenziato come il Presidente Usa abbia dedicato gli ultimi mesi del suo mandato a raggiungere l’accordo militare con Israele al fine di coronare con un ultimo successo la propria eredità politica – soprattutto in termini di politica estera e, nello specifico, mediorientale.
Nell’ottica delle imminenti elezioni presidenziali americane, poi, l’accordo può essere letto come frutto del tentativo dell’amministrazione Obama di rafforzare l’immagine del Partito Democratico agli occhi di due gruppi d’influenza di tradizionale inclinazione Repubblicana – l’industria delle armi e la comunità ebraica americana. L’accordo, infatti, contiene clausole che (come visto sopra) vanno a favorire l’industria militare americana in termini economici e al contempo, trattandosi di un accordo bilaterale senza precedenti in termini di cifre, risana i legami tra l’amministrazione Obama e gli ebrei americani che più si attestano su posizioni pro-Israeliane e che avevano in passato denunciato la freddezza dei rapporti tra Obama e Netanyahu.
Speculare è poi il tentativo di delegittimare le voci del Partito Repubblicano che criticano Obama per le tensioni che durante gli anni del suo mandato hanno rischiato di incrinare la tradizionale amicizia tra Usa e Israele – Paese che gran parte dell’elettorato americano ancora considera unico affidabile alleato di Washington in Medio Oriente e unico serio baluardo contro la minaccia del terrorismo e dell’islamismo radicale.
Dal lato di Netanyahu, invece, l’accordo – pur con le concessioni che Israele ha dovuto fare – è stato cercato perché visto come essenziale per preservare la superiorità militare dello Stato ebraico (in termini qualitativi) rispetto ai vicini, e garantirne così capacità di deterrenza e sicurezza.
La scelta di firmare l’accordo prima dello scadere della presidenza Obama nasce dalle incertezze che circondano la scelta del prossimo Presidente americano. A questo proposito, Netanyahu ha finora rifiutato una chiara presa di posizione (come aveva invece fatto nel 2012 schierandosi apertamente dalla parte di Romney). È però plausibile supporre che a Tel Aviv avere Trump alla Casa Bianca sia visto come preferibile rispetto all’arrivo di Clinton, la cui posizione su Israele è considerata non sufficientemente diversa da quella dell’uscente Obama, e troppo incentrata sul dialogo con l’Autorità Palestinese e sulla condanna agli insediamenti israeliani nei territori palestinesi.
Rispetto alle dinamiche di politica e di sicurezza in Medio Oriente, infatti, Netanyahu e Trump durante gli ultimi mesi hanno mostrato di condividere diverse posizioni. Come Bibi, Trump ha più volte criticato l’accordo nucleare siglato l’anno scorso con l’Iran. L’ascesa economico-politica iraniana è vista dal Partito repubblicano, e anche da Trump, come una minaccia alla stabilità regionale. Inoltre, a differenza di Clinton (e più in generale della leadership Democratica), Trump non ha condizionato l’amicizia americana verso Israele al recupero del dialogo con i Palestinesi nella prospettiva di una “two-state solution”. Trump ha addirittura sostenuto il diritto di Israele a costruire ulteriori insediamenti in Cisgiordania.
Come detto, questa vicinanza di posizioni tra Bibi e Trump potrebbe essere rafforzata dall’accordo appena siglato. Trump, nella sua retorica, ha sempre promosso una politica estera americana fatta di isolazionismo e di non-intervento, e tale approccio, affiancato all’accordo raggiunto, rende almeno sulla carta Israele capace di difendersi “better” e “by itself”, secondo le parole di Yaakov Nagel, capo dell’Israel’s National Security Council.
di Marta Furlan