La morte di Shimon Peres, uno dei fondatori dello Stato ebraico e ultimo esponente di quella prima generazione politica israeliana ormai scomparsa, ha portato con sé reazioni contrastanti e la necessità di valutare l’eredità politica del defunto leader israeliano.
Da mercoledì scorso, quando la notizia della morte di Shimon Peres – 93 anni, malato da tempo – è giunta da Tel Aviv, il nome del leader Israeliano domina le testate giornalistiche e le reti televisive di tutto il mondo. Come spesso accade nel momento della morte di figure che hanno fatto la storia del proprio tempo e del proprio Paese, voci di elogio si alternano a voci di critica – e ciò è ancora più inevitabile quando si tratta di un Paese difficile come Israele e di un leader controverso come Peres. La confusione che risulta da questo continuo succedersi di opinioni contrastanti rende difficile comprendere in modo oggettivo la complessa figura di Peres, e al tempo stesso, rende necessario cercare di far luce sul lascito politico dell’ultimo dei Padri Fondatori di Israele.
Nato nel 1923 in Polonia, nel 1934 Peres si trasferisce con la famiglia in un kibbutz e nel 1947, grazie alla conoscenza con Ben Gurion, entra nell’Haganah (un’organizzazione paramilitare ebraica) in veste di responsabile all’acquisto armi. Le sue capacità diplomatiche lo portano al Ministero della difesa, del quale diventa direttore nel 1953. In questa veste non solo contribuisce allo sviluppo dell’industria militare israeliana, ma avvia quel processo di ricerca scientifica e di cooperazione tecnologica (specialmente con Francia, Regno Unito e Norvegia) che porta alla costruzione del centro di ricerca e del reattore nucleare di Dimona e all’ingresso di Israele nel novero dei Paesi nuclearizzati.
Membro del Knesset (il Parlamento israeliano) dal 1959, in seguito alla guerra del 1967 diventa sostenitore degli insediamenti israeliani nei territori occupati (Cisgiordania e Gaza) e, in qualità di Ministro della difesa, approva la costruzione di 21 insediamenti per 6.000 israeliani.
Mai eletto Primo Ministro, Peres ricopre però la carica dal 1984 al 1986, grazie a un accordo di rotazione raggiunto con il rivale Yitzhak Shamir, e di nuovo nel 1995 dopo l’uccisione di Yitzhak Rabin. Sotto il governo Rabin, infatti, Peres è sia Vice primo ministro sia Ministro degli esteri, ed è in questa veste che nel 1993 conclude i famosi Accordi di Oslo con Arafat, che gli valgono il Premio Nobel per la pace.
Nel 2001 crea un governo di unità nazionale con il leader del Likud Ariel Sharon, al cui neo-fondato Partito di centrodestra Kadima si unirà nel 2005. Infine, ottiene il suo ultimo incarico politico come Presidente, dal 2007 al 2014.
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Per una sua biografia completa consigliamo questo speciale del giornale israeliano Haaretz
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Ripercorrere la lunga carriera politica di Peres aiuta indubbiamente a comprendere le ragioni che si celano dietro le opposte letture date del personaggio.
Coloro che oggi celebrano la figura di Peres come promotore della pace in Medio Oriente e del dialogo con i palestinesi, tendono a fare riferimento principalmente agli Accordi di Oslo e alle recenti interviste – rilasciate da Peres sia in veste di Presidente, sia in veste di fondatore della Ong Peres Centre for Peace – nelle quali il politico israeliano si sarebbe più volte dichiarato strenuo difensore e sognatore di un Medio Oriente in pace.
Chiaramente, e indiscutibilmente, gli Accordi di Oslo non sono qualcosa che possa essere trascurato o sminuito. Essi, infatti, hanno rappresentato un punto di svolta epocale nel rapporto tra israeliani e palestinesi, specie per l’approccio dei primi nei confronti dei secondi. Questi Accordi segnano il momento storico in cui il popolo israeliano accetta di fronte alla comunità internazionale l’esistenza di una popolazione palestinese che vive sul territorio israeliano, e riconosce di riflesso l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e il suo leader Yāsser Arafat, come legittimi rappresentanti del popolo palestinese.
Da questo punto di vista, Oslo ha rappresentato una pietra miliare nelle relazioni bilaterali tra i due popoli, e il merito di ciò va in larga parte riconosciuto a Peres, che per primo accettò di riconoscere Arafat come legittima controparte e che per primo si aprì al confronto bilaterale con il leader palestinese.
Allo stesso modo, non è possibile non riconoscere l’enfasi posta da Peres nelle sue recenti interviste sulla necessità di perseguire una pace che parta dalla “soluzione dei due stati”. In più occasioni, infatti, Peres ha dichiarato che la pace tra Israeliani e Palestinesi è possibile, e che
“If there won’t be a two state solution, it will be ongoing violence and tragedy for all sides, for all people. […] Two states can bring peace. The lack of two states can prevent peace.”
Parole simili non possono essere sminuite come mera retorica politica, in quanto contengono un messaggio che si contrappone alle preoccupanti posizioni di estrema destra dell’attuale Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e che dà voce al nucleo moderato della società israeliana che riconoscono il diritto dei Palestinesi a uno Stato.
Tuttavia, se è vero che Oslo e il supporto alla “soluzione dei due stati” come strategia di pace meritano riconoscimento, uguale attenzione va prestata agli aspetti della politica di Peres enfatizzati dai suoi critici: lo sviluppo nucleare, gli insediamenti nei territori occupati e la barriera di separazione costruita da Israele in Cisgiordania.
Il progetto nucleare di Dimona (grande orgoglio di Peres) era stato elaborato per dare ad Israele deterrenza nucleare in un momento in cui lo stato ebraico vedeva la propria esistenza costantemente minacciata dai Paesi arabi vicini – e indubbiamente ha accresciuto lo status di Israele a livello internazionale, e la sua credibilità come potenza militare tecnologicamente avanzata. In termini di sicurezza, però, Dimona è stata un fallimento. La nuclearizzazione di Israele, infatti, ha introdotto in una regione già basata su fragilissimi equilibri geopolitici un ulteriore elemento di minaccia, di incertezza e – quindi – di insicurezza. Nata per proteggere Israele, Dimona ha paradossalmente creato l’effetto opposto, perché ha potenzialmente aperto le porte a una “nuclear arms race” nel Medio Oriente (chiaramente esemplificata dal caso iraniano) che incombe oggi come un’ombra sulla la sicurezza regionale.
Dimona, da questo punto di vista, non può quindi essere considerato un lascito positivo di Peres, così come gli insediamenti israeliani nei territori occupati nel 1967. Voluti negli anni ’70 da Peres, gli insediamenti in Cisgiordania (la cui costruzione non si è da allora mai arrestata) hanno creato una vera e propria situazione di apartheid, ed hanno profondamente deteriorato le relazioni tra palestinesi e israeliani. Il continuo supporto a questa politica dato da Peres anche dopo il 1993, ha inevitabilmente contribuito al fallimento degli accordi di Oslo – che si sono di fatto tradotti in una ghettizzazione dell’Autorità palestinese e della popolazione palestinese in un territorio circoscritto della Cisgiordania.
L’approvazione data da Peres alla costruzione dei primi insediamenti ha così segnato l’inizio di una delle politiche israeliane che più continuano ad ostacolare la pace, ed è questo uno dei suoi più negativi lasciti.
Strettamente collegata alla costruzione degli insediamenti c’è poi la costruzione della Separation Barrier, muro che separa il territorio dello Stato di Israele dai territori palestinesi in Cisgiordania. Proposta già nel 1992 da Rabin, la barriera di separazione è stata costruita nel 2002 e – nonostante la condanna dalla Corte di Giustizia Internazionale – da allora continua a ostacolare i movimenti della popolazione palestinese residente al di là di essa. Nonostante la barriera sia principalmente associata al nome di Sharon, che era all’epoca Primo Ministro, nondimeno è da ricordare come lo stesso Peres fosse parte di quel governo e di come l’approvazione da lui data alla Barriera abbia contribuito all’innalzamento di uno dei maggiori ostacoli alla “soluzione dei due stati”.
Alla luce di ciò, è forse opportuno riconoscere che Peres non fosse né un brutale warmaker né un inflessibile peacemaker, ma piuttosto un abile politico sempre in grado di reinventarsi e di adattarsi ai tempi, al flusso degli eventi, agli alleati politici, alle aspettative della comunità internazionale, e a quelle dell’opinione pubblica israeliana.
di Marta Furlan