L’Algeria è il paese più grande e ricco del Maghreb. Primo produttore di gas e terzo produttore di petrolio del continente, il paese sta attraversando momenti critici. L’Algeria è sull’orlo di un implosione che potrebbe avere conseguenze rilevanti.
Abdelaziz Bouteflika al potere dal 1999 – e assente della scena politica dal 2013 a causa di un ictus – fatica a governare un paese che sta facendo sempre più i conti con i fantasmi del passato. Paradossalmente, in questo clima di tensione, l’esercito sta tentando di anticipare le elezioni nel tentativo di fargli ottenere un quinto mandato e preservare nei fatti, lo status quo.
Tutte le previsione fatte prefiguravano un 2017 tutt’altro che tranquillo per l’Algeria. Le manifestazioni all’inizio di quest’anno ci hanno permesso di rilevare una palpabile tensione e una situazione che potrebbe degenerare da un momento all’altro. Il paese sta affrontando una grave crisi finanziaria, oltre che sociale. Il calo dei proventi del petrolio, unito al deprezzamento del dinaro algerino hanno provocato l’aumento del costo delle importazioni, vale a dire la perdita del potere di acquisto e l’aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità. A questo si aggiunge che lo stato ha alzato anche il prezzo del carburante. Un paradosso se si considera che l’Algeria è il terzo produttore di petrolio del continente africano. Per affrontare il deficit di bilancio, lo stato ha aumentato l’IVA dal 17% al 19% e la disoccupazione ha raggiunto livelli da record. Insomma, gli ingredienti per un esplosione sociale non mancano.
source: tradingeconomics.com
L’Algeria è riuscita, in un certo senso, a non farsi travolgere dall’ondata delle cosiddette “primavere arabe”, grazie anche ai proventi degli idrocarburi che abilmente il governo ha saputo utilizzare per garantire un certo livello di welfare alla popolazione. Rivolte evitate anche grazie al fatto che gli algerini hanno ancora ben in mente le atrocità subite nel decennio nero della guerra civile che ha causato oltre 250.000 morti:10 anni di violenze hanno logorato la popolazione che ha volutamente schivato l’onda della rivolta per preservare una pace sociale.
Una pace che non sempre però ha coinciso con un periodo di prosperità, nonostante il fatto che negli anni passati il prezzo del barile fosse all’apice. Dall’insediamento di Abdelaziz Bouteflika – nel 1999 fino all’inizio della crisi petrolifera del 2015 – lo stato ha incassato oltre 800 miliardi di dollari grazie a proventi degli idrocarburi e ciononostante, il governo non ha intrapreso nessuna politica industriale né tanto meno messo in moto uno sviluppo agricolo. La natura del regime militare ha sempre incoraggiato a spendere gran parte del budget statale per l’acquisto di ogni genere di armenti.
Oggi però la situazione è molto cambiata, lo stato sociale sta gradualmente diventando un ricordo del passato. Il relativo equilibrio che il prezzo del petrolio garantiva negli anni passati sta scomparendo. Le condizioni del paese – in mano ai generali corrotti da oltre 50 anni – stanno spingendo il popolo a scendere in piazza. Questo panorama è reso ancora più tetro dallo stato del presidente Abdelaziz Bouteflika, assente dalla scena politica dal 2013 per problemi di salute, che lo scorso 2 marzo ha compiuto 80 anni.
Chi sta governando il paese di verrebbe da chiedersi?
Consapevoli dei rischi, le autorità algerine sembrano al quanto preparate ad un eventuale insurrezione popolare. Un esplosione che già si attendeva alla fine del 2016. Ora però i segnali di tensione sono visibili. È in questo contesto che l’Algeria si sta preparando per le elezioni parlamentari programmate il prossimo maggio.
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130 anni di domino francese, oltre 7 anni di guerra di liberazione, 10 anni di guerra civile: tutto questo ha prodotto la complessità politica e sociale dell’Algeria.
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Nel frattempo, molti cambiamenti importanti sono stati effettuati in seno all’apparato politico, ma non sono escluse altre forme di guerre di successione. Il clan di Bouteflika ha cercato di assicurarsi tutte le posizioni apicali del paese, tra cui quella degli idrocarburi che frutta ancora oggi oltre il 60% delle entrare dello stato. Tuttavia, la morte del presidente potrebbe rompere un precario equilibrio che fino ad oggi ha evitato il caos.
Se c’è una costante nella politica algerina, è che il peggio non va mai escluso. Tuttavia, la morte di Bouteflika potrebbe scoperchiare il vaso di Pandora: un eventuale vuoto politico metterebbe a duro confronto quattro attori dotati di agende politiche e culturali diverse le une dalle altre.
- L’esercito: L’apparato statale è composto dai generali dell’esercito. Lo stesso esercito partorito dal F.L.N. – al potere dall’indipendenza – risulta essere l’unica forza legittima a difendere le conquiste rivoluzionarie. I vari riordinamenti interni hanno tuttavia già preparato la successione in caso di morte dell’attuale presidente. Tuttavia, Bouteflika ha eliminato tutti i personaggi chiave legati alla vecchia madre patria Francia specialmente il capo dell’Intelligence, creando così una nuova organizzazione di servizi segreti sotto il suo diretto controllo. Con questa mossa ha ridotto drasticamente l’influenza dello Stato Maggiore dell’esercito e rafforzato la sua potenza, diventando l’unico centro decisionale del paese.
- Islamisti: L’Algeria è un paese musulmano di conseguenza l’islam ha sempre rivestito un ruolo centrale nella vita e nella cultura del paese. Nel 1992, il popolo – stufo della situazione politica e della corruzione condotta dai generali nel gestire i proventi del petrolio – vota in massa il F.I.S. (Front Islamique du Salut) che vince democraticamente le elezioni salvo poi vedersi revocare il risultato con un colpo di stato militare per mano dell’esercito con il supporto della Francia. Le manifestazioni vennero represse nel sangue, molti simpatizzanti del F.I.S. vennero licenziati dalle posizioni pubbliche e i leader incarcerati. Questo spinse una parte della popolazione ad imbracciare le armi e a combattere lo stato. Il governo – sempre con benestare della Francia – riuscì ad infiltrare numerosi uomini nel rango della G.I.A. (Groupe Islamique Armé) – il gruppo armato del F.I.S. – commettendo atrocità di ogni genere nei villaggi per poi riversare le colpe sugli islamisti. Algeri era ben cosciente della simpatia popolare nei confronti degli islamisti e seppe quindi usare questa carta contro di loro. La terza guerra algerina – come viene comunemente chiamata – ha lasciato ancora oggi una cicatrice molto profonda nella mente del popolo algerino.
Sebbene l’utilizzo improprio abbia – nel corso degli anni – dato una connotazione piatta del termine “islamist” al punto da essere a volte associata al terrorismo, per “islamismo” e/o “Islam Politico” si rimanda ad una ideologia che ritiene che l’islam debba guidare la vita dei musulmani in tutte le sfere. Nella vita sociale così come nella vita politica. Si tratta quindi di una concezione essenzialmente politica dell’islam. Alcuni gruppi hanno usato le armi per il raggiungimento dei propri obiettivi, mentre altri gruppi hanno agito diversamente. Nel caso specifico dell’Algeria per esempio, il F.I.S. ha vinto democraticamente le elezioni e senza l’uso della forza. Si tratta dunque di una ideologia tout-cour, e l’uso o meno della violenza – in alcuni casi – non altera la definizione del termine stesso.
- Amazigh: Il problema degli amazigh – popolazione nomade, primi abitanti del Nord d’Africa – ha sempre caratterizzato la vita politica e sociale non solo dell’Algeria bensì di tutto il bacino del Sahel. I “berberi” non hanno mai digerito la dominazione, araba prima e francese dopo, e di conseguenza hanno sempre nutrito il desiderio di prendere in mano il loro destino e ripristinare la loro lingua e cultura sulla loro terra ancestrale. Ora le armi non mancano e nulla impedisce – come sta già accadendo – che anch’essi imbraccino i fucili contro lo stato centrale.
- Terroristi: l’Algeria ha da sempre condiviso la scena nazionale con le questioni legati all’AQMI. Cellula di al-Qaeda del Maghreb insediata nel suo territorio. In realtà nessun gruppo jihadista attuale ha mai realmente minacciato l’apparato statale. Robert Fisk in “Cronache mediorientali” sottolineava l’affinità tra l’intelligence algerina e alcuni gruppi jihadisti. Tuttavia, lo stato conosce molto bene questo problema e spesso – nel corso della storia recente – ha usato gruppi armati per creare insicurezza nel paese salvo disfarsene nel momento più opportuno. Ma questo equilibro del controllo del territorio potrebbe spezzarsi con la morte di Bouteflika. Per di più, la vicinanza con Libia, il Niger e il Mali, fa temere il peggio. Combattenti Isis hanno già varcato i confini e rivendicato l’attentato dello scorso febbraio a Constantine. Si teme che si creino i presupposti per uno scenario simile a quello siriano.
Certo, è alquanto difficile sapere adesso con esattezza la piega che potrebbe prendere la situazione algerina. Certo è che il paese va avanti per inerzia travolto da un impasse politico che va avanti da oltre mezzo secolo. La situazione sociale in cui è costretto a vivere il popolo algerino non promette nulla di buono. Secondo la Stockholm International Peace Research Institute, l’Algeria è il primo importatore di armi in Africa, nonostante il paese non sia in guerra. Questo la dice lunga dell’uso che ne potrebbe fare nel caso in cui il paese si trovasse ad affrontare uno scenario simile a quello siriano.
Fin dal principio, il governo algerino era di natura politico-militare. Al potere in maniera incontestabile dal 1965, l’esercito era già destinato a rimanere per sempre il padrone del gioco politico. Dopo aver limitato il mandato di A. Ben Bella, supportato il colonnello H. Boumediènne e imposto il colonnello Chadli Bendjedid, l’esercito ha messo fine al processo democratico.
Tuttavia, cinquantanni dopo l’indipendenza, gli algerini non seppero mettersi d’accordo sulle modalità d’accesso, di controllo e di rinnovamento del potere: la dittatura del partito unico – paravento della dittatura militare – ha fatto dell’Algeria un paese sull’orlo di un’implosione. La vittoria del F.I.S. nel gennaio 1992 – seppur non avesse un vero programma politico – aveva predetto questa situazione, che ora potrebbe ripetersi, destando preoccupazione internazionale.
L’idea di aver uno stato islamista alle porte del Mediterraneo incuteva timore a tutti e non era di certo nell’interesse dell’Occidente risvegliarsi con il Maghreb in mano all’islam politico. Eppure, nessuno si preoccupò di rispettare le scelte democratiche di quasi quattro milioni di algerini che avevano vinto le elezioni.
Dopo oltre mezzo secolo, l’Algeria si trova in un cul-de-sac. La priorità per il paese sarebbe innanzitutto risolvere il problema dovuto alla crisi economica, quindi alleggerirsi dal debito pubblico e risolvere una disoccupazione che tocca il 50% della popolazione attiva, diversificando un’economia troppo dipendente dagli introiti degli idrocarburi.
Inoltre, gli interessi esterni lacerano in paese, disgregando quel che esiste delle scelte politiche e dell’identità del paese. Il progetto di Stato-nazione è in continuo fallimento, la memoria collettiva è spezzata e non c’è coesione sociale. In misura maggiore rispetto a molti altri paesi arabi, in Algeria il regime è isolato dalle critiche della comunità internazionale. Questo perché non dipende dal turismo come la Tunisia o dall’aiuto degli Stati Uniti come nel caso dell’Egitto. Per di più, la “minaccia islamica post 11 settembre” è stata una manna dal cielo per i generali che l’hanno saputa trasformare in una rendita straordinaria, garantendosi il sostegno incondizionato degli Stati occidentali, soprattutto dal punto di vista degli armamenti. Lo stato di emergenza – durato 19 anni – ha impedito il cammino verso una qualsiasi forma di sviluppo e Stato di diritto.
I generali – co-responsabili dell’annullamento delle elezioni del 1992 – continuano a detenere il potere, ma la situazione geopolitica nel mondo e nel Nord Africa sta cambiando. In combinazione con il diffuso malcontento – che ha generato la caduta di Ben Ali, Mubarak e di Gheddafi – l’unica speranza realistica per il cambiamento in Algeria sarebbe quella di vedere finalmente l’esercito riprendere la strada verso le caserme e consegnare così ai politici il compito di guidare lo stato.
di Mohamed-Ali Anouar