Com’è possibile che un colosso come Apple abbia eluso tasse per miliardi di euro per decenni alla luce del sole? La risposta va cercata nel sistema di società ad hoc di Cupertino che fa delle politiche fiscali nazionali europee sconnesse tra loro il suo punto di forza.
Martedì sera il contribuente medio si sarà preso un colpo guardando il telegiornale delle 20: tra il 2003 e il 2014, a fronte di introiti miliardari, Apple ha pagato tasse per lo 0.005% ed è stata condannata a risarcire 13 miliardi di tasse non versate. Nel solo 2011, con utili pari a 16 miliardi di euro, Apple ha versato meno di 10 milioni di euro di tasse in quanto è stato possibile tassare solo 50 di quei 16.000 milioni di euro. Il tutto grazie a un sistema di scatole cinesi, di società create ad hoc e di accordi con il Ministero delle Finanze irlandese (i cui dettagli tecnico-burocratici potete trovare qui, raccontati dalla Commissione in prima persona) che ha ridicolizzato il fisco di tutti i paesi europei.
Questo è stato possibile anzitutto perché non esiste una politica fiscale europea. Bruxelles non ha un ruolo in materia di imposizione fiscale e ogni governo è libero di fare quello che vuole. L’UE può solamente vigilare che le politiche nazionali tutelino la libera circolazione di merci, servizi e capitali e che non permettano ad alcune imprese di godere di vantaggi illegali rispetto ai concorrenti (come appunto nel caso Apple).
Quando vota per materie fiscali, l’UE richiede il consenso unanime di tutti i paesi: la tutela degli interessi di ognuno si trasforma così in un macigno per l’attuazione di politiche efficaci. Il processo decisionale è lento e ostacolato dal veto di paesi che fanno della loro bassa tassazione un punto di attrattività (come Lussemburgo e Irlanda). A chi si chieda cosa aspettino i singoli governi ad avere la mano pesante con le multinazionali risponde il caso italiano, proprio nel campo digitale e informatico.
È il 2013 quando Francesco Boccia (Presidente della Commissione Bilancio del Senato) propone una digital tax italiana riservata ai redditi d’impresa delle aziende di e-commerce online per recuperare circa 6 miliardi di tasse. Si parla di un mercato digitale da 11 miliardi di euro annui dominato da Apple, Twitter, Facebook, Ebay e Amazon che nel 2014 ha versato in tasse l’irrisoria cifra di 9 milioni di euro. I tecnici del Ministero delle Finanze stopparono la proposta in quanto una tassa del genere, se introdotta solo in Italia, avrebbe ridotto l’attrattività degli investimenti e fatto spostare le aziende dove questa tassa non c’era. Soluzione: aspettare che l’Unione Europea approvi una sua legge sulla tassazione dei colossi del web.
Questa legge europea l’attendiamo ancora oggi. L’entusiasmo per la decisione della Commissione Europea di chiedere ad Apple il pagamento di 13 miliardi di tasse non deve farci perdere di vista un fatto: si tratta solo di una sentenza europea, non di una nuova legislazione europea. I tecnici della Commissione sono stati in gamba a muoversi all’interno di ristretti margini di manovra per mettere al muro Apple, non per evasione fiscale (non ne hanno il potere), ma per trattamento discriminatorio nei confronti di altre aziende al fine di creare un vantaggio sui concorrenti.
Oggi è difficile arrivare a una politica fiscale comune che tolga il diritto di veto ai paesi recalcitranti e dia poteri a Bruxelles. La sovranità sul tema fiscale è ideologicamente fondamentale e dunque ardua da cedere. Come per la politica estera e di difesa, gli stati-nazione non sembrano pronti a lasciare le briglie della politica fiscale a qualcun altro, nonostante (ricordiamolo) questo qualcun altro non sarebbe un soggetto terzo esterno, ma un organismo in cui i governi hanno voce. Il caso Apple dimostra che chi inneggia al ritorno alla vecchia sovranità nazionale (vedi Brexit), promuove un paradosso: la condivisione di autorità è l’unica strada per sopravvivere in un mondo dinamico e pronto a sfruttare ogni breccia di un sistema (fiscale o politico) sconnesso.
Ci sono voluti più di due anni di indagini per smascherare un colosso che nel 2015 ha fatturato 233.7 miliardi di dollari, mentre con una legislazione fiscale unica (che tassi il reddito là dove viene creato indipendentemente dall’enorme mobilità dei capitali) avremmo dovuto semplicemente applicare la legge per chiedere a Apple quanto dovuto.
Oggi i governi sono chiamati a rispondere a una domanda: è più grande il fastidio di delegare a Bruxelles il potere di decidere quante tasse paghiamo o l’imbarazzo di farsi prendere in giro da multinazionali estere al di fuori della legge?
di Davide Vavassori