La Russia ha sfruttato il conflitto siriano come laboratorio e vetrina per testare nuove armi. Con quali risultati?
In Russia l’industria delle armi è una delle principali fonti di guadagno e per lungo tempo il Paese si è trovato secondo – dopo gli Stati Uniti – nella graduatoria degli Stati che investono di più in armamenti, sia in termini assoluti, sia in relazione al PIL.
Oggi le cose sono cambiate e la Russia, secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), occupa la sesta posizione in termini assoluti, con 61,4 miliardi di dollari spesi nel 2018, e la settima posizione in rapporto al PIL, investendo il 3,9% del proprio prodotto interno lordo nell’apparato bellico.
A differenza di molti dei Paesi che la precedono in questa graduatoria, la Russia non investe per l’acquisto di armamenti prodotti da altri Paesi, bensì per la fase di ricerca e sviluppo e per la produzione propria di armi, che poi vende in tutto il mondo a prezzi fortemente concorrenziali rispetto a quelle prodotte dai Paesi occidentali.
Mosca risulta infatti essere al secondo posto tra i principali esportatori di armamenti, ancora una volta dietro agli Usa. Il giro di affari è enorme, basti pensare che solo nel primo semestre del 2019 il Cremlino ha guadagnato 5,7 miliardi di dollari dalla vendita di sistemi difensivi ed offensivi, secondo quanto affermato all’International Economic Forum di San Pietroburgo da Alexander Mikheev, amministratore delegato di Rosoboronexport, l’agenzia russa per l’export militare. Negli ultimi 5 anni sono stati 48 i Paesi che si sono rivolti a Mosca per le proprie forniture belliche, primi tra tutti India, Cina ed Algeria.
La Siria, laboratorio e vetrina.
Questo discorso, negli ultimi anni, è valso soprattutto per la Siria, che è stata la vetrina che ha permesso a Mosca di testare e mettere in mostra i suoi nuovi sistemi d’arma, consentendo a tutto il mondo, Paesi arabi in primis, di vedere sul campo come funzionassero e al Cremlino di ottenere numerosi contratti con le nazioni della regione. Mosca, che secondo uno studio di Alexandra Kuimova, ricercatrice del SIPRI, è responsabile dell’85% delle forniture militari di Damasco, ha affermato di aver testato oltre 200 nuove armi nel conflitto civile siriano, molte delle quali si sono dimostrate altamente performanti. Tra queste il sistema di difesa antiaereo Pantsyr e alcuni missili come il Kalibr e il Kh-101.
Stando a quanto riporta RG.RU, il direttore generale di Rosoboronexport Alexandr Mikheev ha dichiarato che alcuni Paesi hanno mostrato un forte interesse nell’acquisto di armi che sono state testate in Siria.
Damasco è uno storico alleato del Cremlino, sin dai tempi dell’Unione Sovietica. Nel 2005 la Russia ha deciso di cancellare il debito che la Siria aveva maturato durante la Guerra Fredda, pari a 13,4 miliardi di dollari, ottenendo in cambio una serie di commesse belliche che le hanno consentito di essere di gran lunga il principale partner commerciale della Siria nel campo degli armamenti. Il Cremlino ha inoltre mantenuto la sua base navale a Tartus, costruito una nuova base militare nel distretto di Latakia e disposto interamente della base aerea di Hmeymim. Il veto con cui al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Russia ha bloccato ogni tentativo di embargo alla Siria ha inoltre aumentato le proprie esportazioni belliche nel Paese.
Ma l’utilizzo del conflitto siriano come vetrina per le armi di Mosca è solo l’ultimo capitolo di una storia che parte da lontano. Dopo la fine della guerra con la Georgia dell’agosto del 2008, i vertici militari della Federazione Russa si sono accorti del fatto che l’esercito non fosse efficiente. In alcuni casi, gli ufficiali avevano dovuto fare ricorso ai propri cellulari personali per le comunicazioni con il fronte. Nonostante la schiacciante vittoria, occorreva riformare l’apparato militare.
Per questo motivo è stato messo a punto un ambizioso piano di modernizzazione dell’esercito che ha portato la Russia a cambiare le proprie strategie per adattarsi al mutato ambiente globale, riducendo le unità di combattimento dalla dimensione di brigata a quella di battaglione. Il cambiamento ha investito anche l’equipaggiamento in dotazione ai militari, dato che una buona parte dell’esercito russo utilizzava sistemi d’arma considerati obsoleti. Questo rinnovamento onnicomprensivo ha determinato un aumento nella competitività degli armamenti russi sui mercati globali.
Strategie di crescita
Secondo quanto riportato da SIPRI, nel quinquennio 2014-2018 il commercio mondiale di armi è cresciuto del 7,8% rispetto al periodo 2009-2013. Ciononostante, pur continuando ad occupare il secondo gradino del podio, la Russia ha subito una flessione nelle vendite pari al 17% negli anni 2014-2018. La forbice tra Mosca e Washington si è allargata, con la Federazione Russa che detiene una fetta di mercato pari al 21% del totale contro il 36% degli Usa (nel quinquennio precedente i due paesi controllavano rispettivamente il 27% e il 30%).
Questo calo è stato determinato da diversi fattori. Da un lato India e Venezuela hanno ridotto di molto i loro acquisti di armamenti russi, probabilmente preoccupati di dipendere troppo da Mosca per il loro apparato difensivo. Anche la Cina, che vuole sviluppare maggiormente la propria industria bellica ha ridotto le commissioni con il Cremlino.
Dall’altro lato, le sanzioni occidentali nei confronti della Russia sono state fondamentali nel determinare questa poderosa flessione nella vendita di armamenti. Con l’invasione della Crimea e la guerra sporca nel Donbass, la Federazione Russa si è ritrovata in una situazione di isolamento diplomatico e soprattutto commerciale rispetto ai Paesi occidentali. Molte delle sanzioni che Washington e Bruxelles hanno deciso di comminare nei confronti di Mosca riguardano proprio questo settore economico.
Si tratta di una strategia ben studiata in quanto i profitti derivanti dalla vendita di armamenti servono alla Russia per evitare di diventare effettivamente un petrostato e al contempo le consentono di mantenere il proprio poderoso apparato militare, oltre a darle la possibilità di modernizzarlo. Nel 2017 il presidente Trump ha firmato il Countering America’s Adversaries Trough Sanctions Act che prevede persino sanzioni cosiddette secondarie per chi acquista armi dalla Federazione Russa, complicando di molto la possibilità del Cremlino di chiudere nuovi accordi con altri Paesi.
Per tutti questi motivi, la Russia ha deciso di volgere il proprio sguardo ad un particolare angolo del globo, nel quale voleva anche aumentare la propria influenza: il Medio Oriente.
Leggi anche: L’influenza russa in Medio Oriente – pt 1.
Stando ai dati riportati da SIPRI, infatti, mentre a livello generale il commercio di armi da parte del Cremlino subiva una flessione, nella regione MENA (Middle East North Africa) registrava un aumento del 19%.
Questo trend si è rivelato debordante per alcuni Paesi. Si parla infatti di un aumento delle esportazioni belliche russe verso l’Egitto pari al 150% e verso l’Iraq addirittura pari al 780%, secondo dati relativi al periodo 2014-2018 rispetto al periodo 2009-2013.
Il Medio Oriente è senza ombra di dubbio una delle zone più calde del pianeta, visto il numero di conflitti che lo stanno dilaniando da decenni e i Paesi della regione sono tra i più interessati all’acquisto di armi. Dal 2009 al 2018 i Paesi MENA sono stati responsabili dell’acquisto del 22% di tutti gli armamenti venduti a livello globale e tra il periodo 1999-2008 e il periodo 2009-2018 si è registrato un incremento nella vendita di sistemi d’arma prodotti da Mosca e diretti ai Paesi MENA pari al 125%
Se i Paesi dell’area Asia-Oceania sono ancora i primi importatori di armamenti russi, i Paesi MENA hanno guadagnato la seconda posizione in graduatoria. Rispetto al totale di armi esportate dal Cremlino una quota pari al 26% finisce in Medio Oriente e Nord Africa.
La Federazione Russa ha sfruttato la vendita di armi per aumentare la propria influenza rispetto ad alcuni Paesi, soprattutto in Medio Oriente. Mosca ha infatti spesso utilizzato i contratti per la vendita di armi come contropartita per la cancellazione del debito che alcuni di questi Paesi avevano accumulato già dai tempi dell’Unione Sovietica, come accaduto in Siria ma anche in Algeria, dove il Cremlino ha cancellato i quasi 5 miliardi di dollari di debito in cambio di commesse per la vendita di armi.
Questa strategia soddisfa tutte le parti in causa. Se è chiaro quale sia il ritorno economico di Mosca, per i Paesi MENA la cancellazione del debito, la possibilità di ridurre la propria dipendenza dai Paesi occidentali e di sottrarsi alle condizioni da questi imposte per la vendita di armi – ossia il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani – sono leve molto importanti.
Il conflitto siriano ha dunque consentito a Mosca di mettere in evidenza i progressi raggiunti negli ultimi anni dalla propria industria degli armamenti, permettendo alla Russia di mantenere la propria posizione nel mercato delle armi e di aumentare le proprie esportazioni nella regione MENA, anche se il costo è stato pagato principalmente dai civili siriani, vittime degli innumerevoli crimini di guerra commessi dalle forze russe e dei bombardamenti indiscriminanti su aree e strutture civili.
In questo modo il Cremlino è riuscito a contrastare il trend negativo che stava subendo negli ultimi anni, anche a causa delle sanzioni occidentali, ed è riuscito ad aumentare la propria influenza nella regione più calda del pianeta. Proprio là, dove il terreno per la vendita di armi è il più fertile che ci sia.
di Riccardo Allegri