La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno colpito basi militare in Siria in risposta all’attacco chimico su Douma. Perché una reazione giunge ora e cosa ci si deve aspettare?
In risposta all’attacco chimico su Douma del 7 aprile, una settimana dopo svariati annunci e smentite, nella notte del 14 le forze navali e aeree di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno lanciato un attacco missilistico su tre obiettivi militari siriani legati alla produzione e all’uso di armi chimiche (un centro di ricerca nel distretto di Barzeh a Damasco, un centro di stoccaggio di armi chimiche e un posto di comando e deposito a ovest di Homs), senza causare vittime. Il regime siriano e gli alleati russi e iraniani hanno condannato l’azione come “un’aggressione” e accusato i responsabili di “aver fabbricato l’attacco chimico” per giustificare il raid missilistico.
Cosa si sa dell’attacco chimico?
Un team dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) è arrivato a Damasco il 13 aprile per ispezionare il sito dell’attacco chimico. Nonostante il rapido dispiegamento della missione, il sito potrebbe essere già stato compromesso, sia perché truppe russe si sono recate sul luogo il 10 aprile senza alcun tipo di monitoraggio indipendente sia perché secondo gli esperti le tracce di gas nervino si degradano molto velocemente.
Fino ad oggi agli ispettori è stato inoltre impedito l’accesso all’area. Scelta motivata da “motivi di sicurezza” secondo le versioni ufficiali di Russia e Siria, che hanno assicurato l’accesso al sito dell’attacco entro domani, mercoledì 18 aprile.
Tuttavia nei cinque giorni successivi all’attacco in Giordania gli esperti hanno ricevuto campioni biologici (sangue e urina) di alcune delle vittime e dei sopravvissuti che, analizzate, hanno confermato la presenza sia di gas clorino che di gas nervino.
Dopo l’attacco i soccorritori avevano filmato un grosso cilindro giallo sul tetto dell’edificio colpito in cui sono morte almeno 60 persone. Le analisi di geolocalizzazione della piattaforma di giornalismo investigativo Bellingcat hanno confermato il contenuto del video e che il cilindro giallo è identico a quelli usati in passato in altri attacchi al gas clorino. L’ipotesi è dunque che dentro il cilindro ci fossero due bombe, una con gas clorino e una con gas nervino. Secondo un esperto di armi chimiche:
[I due gas] non possono essere mescolati, perché volatili e instabili, ma possono essere combinati. La teoria è che fossero nello stesso cilindro ma tenuti separatamente. Il punto di detonazione li ha dispersi insieme“.
A Parigi, Londra e Washington le agenzie di intelligence hanno esaminato le immagini satellitari, le intercettazioni radio e le traiettorie di volo per cercare di stabilire cosa fosse successo. La conclusione è che la bomba sarebbe stata sganciata da uno dei due elicotteri del governo siriano che erano decollati dalla base aerea di Dumayr, a nord di Douma, 30 minuti prima dell’attacco. La loro traiettoria di volo è stata mappata.
Abbiamo ricostruito gli eventi che hanno portato al raid americano nel nostro International Weekly Brief (qui).
La tesi del fronte governativo.
Nonostante ciò e il fatto che gli unici aerei ed elicotteri operativi su Ghouta fossero siriani e russi, Damasco e i suoi alleati sostengono che l’attacco chimico sia un falso inscenato dall’Occidente, in modo non meglio precisato, per intervenire in Siria.
La Russia ha accusato Trump di essere voluto intervenire senza attendere i risultati di un’indagine dell’OPAC – la stessa OPAC di cui la Russia ha negli ultimi anni liquidato i risultati che confermavano precedenti usi di armi chimiche da parte del regime come “non credibili, viziati e parziali”. Da notare inoltre che la stessa Russia l’11 aprile mise il veto a una risoluzione ONU che chiedeva l’istituzione di un meccanismo imparziale e indipendente che potesse accertare l’uso di armi chimiche e individuarne i responsabili.
Inoltre, l’ambasciatore russo all’ONU, Nebenzia, nel suo discorso precedente al veto, ha prima affermato che l’attacco chimico è stato fatto dai ribelli per giustificare l’intervento occidentale – senza elaborare su come potessero averlo condotto non avendo aviazione – per poi affermare che non c’è stato nessun attacco chimico.
#Russia‘s really going for it at UNSC today: Amb. Nebenzia going all-out tinfoil hat, contradicting himself in rapid time.
– In the space of seconds, he says (1) the #Douma incident was a false-flag chemical attack by rebels & then says (2) there was no chemical attack at all. pic.twitter.com/TrTHOrm0Uh
— Charles Lister (@Charles_Lister) 9 aprile 2018
Negli stessi momenti il Ministero della difesa russo ha diversamente accusato la Gran Bretagna di essere responsabile dell’attacco, sostenendo che l’esercito russo è in possesso di “prove che testimoniano la partecipazione diretta della Gran Bretagna nell’organizzazione di questa provocazione nella Ghouta orientale”.
Queste contraddizioni emergono dalla necessità di dover negare un attacco che costituirebbe crimine di guerra e violazione della Convenzione contro le Armi Chimiche che la Siria ha ratificato nel 2013 e che paleserebbe il fallimento della Russia come potenza garante contro l’uso di tali armi in Siria.
Why does Syria and Russia want the OPCW to investigate the Douma chemical attack? Because it’ll take weeks, if not months, for them to investigate while Syria claims they’re co-operating fully, then they’ll just claim the final report is all fake and wrong if it blames Syria.
— Eliot Higgins (@EliotHiggins) 10 aprile 2018
La risposta di Trump: una questione di credibilità.
La tesi diffusa dalle fonti governative siriane secondo cui Trump è voluto “intervenire con una scusa per rovesciare il regime” non trova alcun riscontro fattuale né coincide con la politica estera americana degli ultimi anni; la natura chirurgica e limitata del raid missilistico suggerisce piuttosto che si è trattato di un’azione deterrente dovuta a una questione di credibilità.
Nei mesi scorsi sia Trump che Macron avevano minacciato l’uso della forza se il regime avesse di nuovo superato la “linea rossa” delle armi chimiche e di fronte al loro ennesimo uso la credibilità di questi Paesi era in ballo.
Nel 2013, dopo l’attacco al sarin su Ghouta, Obama si trovò a dover scegliere tra il dar seguito alle proprie minacce di intervento militare se il regime avesse usato le armi chimiche – rischiando di impantanarsi in un conflitto che non rientrava tra le sue priorità geopolitiche – oppure non intervenire, ma perdere credibilità agli occhi del mondo.
Obama scelse la seconda. Trump invece, che dopo la sua elezione condannò quella scelta, l’anno scorso optò per un’azione “punitiva” ma in piccola scala dopo l’attacco al sarin su Khan Shaykoun, attuato in maniera non troppo diversa dall’attacco del 14 aprile in termini di scopo: come spiegato dal presidente Trump, Macron e dal Premier britannico May, il raid era volto solo a eliminare i siti di produzione e stoccaggio delle armi chimiche per ridurre la minaccia nell’area di queste armi proibite, e non a colpire il regime di Assad per rovesciarlo. Diversi elementi lo confermano.
In primo luogo, Trump ha preannunciato l’attacco giorni prima, dando al regime siriano tutto il tempo per evacuare i suoi asset militari verso basi russe o all’aeroporto civile di Damasco.
In secondo luogo gli Stati Uniti hanno avvertito in anticipo i russi degli obiettivi che avrebbero colpito per evitare incidenti con le forze russe, avvertendo di fatto anche il regime. Un funzionario del governo siriano ha infatti dichiarato che le forze armate siriane “erano state avvertite in anticipo dai russi e tutte le basi militari sono state evacuate giorni fa”.
In terzo luogo sono stati colpiti soltanto tre siti militari, che tra l’altro erano vuoti – non è quindi chiaro quanto il raid abbia danneggiato l’apparato chimico del regime.
È sempre per una questione di credibilità che, a differenza del raid del 2017, Trump ha cercato di intervenire con altri alleati occidentali, per dare una risposta ferma e condivisa agli attacchi chimici, e sebbene solo Francia e Regno Unito si siano uniti all’azione, altri Paesi lo hanno condiviso (come Germania, Olanda, Canada, Australia, Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Israele e altri), tant’è che la bozza di risoluzione, presentata al Consiglio di Sicurezza dalla Russia, che condannava il raid non è passata per il voto contrario di 12 membri – tranne Russia, Cina e Bolivia.
L’accortezza con cui Trump ha avvertito Russia e Siria sugli obiettivi e l’annuncio di appena 10 giorni fa di voler ritirare le truppe americane dalla Siria indicano che dietro il raid missilistico non vi è l’intenzione di intervenire su vasta scala in Siria, cosa che alzerebbe davvero le tensioni con la Russia, ma che era necessario per una questione di credibilità internazionale – sebbene il messaggio paradossale di questo raid punitivo sia che gli attori del conflitto possono di fatto continuare a commettere impuniti crimini contro i civili usando armi convenzionali, purché non usino agenti chimici.
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Infine, per quanto riguarda i presunti interessi americani verso le risorse siriane – assunte da alcuni come motivazione dell’attacco – basta guardare la spartizione della Siria degli ultimi anni per capire chi davvero gestisce le risorse del Paese. Russia e Iran hanno consolidato la loro presenza militare in ampie zone della Siria, assicurandosi basi militari, risorse naturali (petrolio, fosfati e idrocarburi in primis), contratti miliardari di ricostruzione e sfruttamento agricolo, nonché interi quartieri e villaggi confiscati ai rifugiati con una recente legge e concessi alle truppe iraniane e ai loro mercenari afghani e pakistani. I pozzi petroliferi sottratti all’ISIS nell’est del Paese sono da tempo già in territorio curdo.
Quindi a chi ha giovato l’attacco chimico?
Paradossalmente, al regime siriano. In primo luogo perché con l’uso di armi chimiche è riuscito a piegare la resistenza dei ribelli di Douma, gli unici che a differenza delle altre sacche di resistenza a Ghouta avevano rifiutato la resa e che invece il giorno dopo l’attacco hanno deposto le armi e accettato il trasferimento a Idlib, permettendo al regime di riprendere il controllo dell’intera Ghouta e di segnare la più importante vittoria militare dopo Aleppo nel 2016.
In secondo luogo perché il raid missilistico ha favorito la sua tesi del “complotto internazionale contro la Siria”, senza tra l’altro averci rimesso ingenti asset militari. Damasco, infatti, è riuscita a mettere Trump nella posizione in cui mise Obama nel 2013 di dover “fare qualcosa” per non perdere la faccia dopo mesi di minacce. Qualunque cosa avessero fatto gli USA per il regime il risultato sarebbe stato favorevole: se non ci fosse stato nessun raid, infatti, il regime avrebbe potuto smascherare l’ipocrisia delle potenze occidentali e la loro impotenza di fronte all’uso di armi proibite.
Tuttavia, secondo alcuni analisti il raid missilistico è servito anche a distrarre l’attenzione pubblica dai guai che Trump ha in casa, dal raid dell’FBI nello studio del suo avvocato Michael Cohen agli sviluppi dell’inchiesta del Russiagate. Inoltre, come alcuni fanno notare, a causa del raid in Siria, minor attenzione mediatica è stata data alle proteste palestinesi a Gaza che da venerdì hanno portato all’uccisione di alcuni di loro da parte di Israele.
Cosa ci si deve apettare?
Alla luce di ciò, è molto improbabile che altre azioni seguiranno e di certo non si è alla soglia di alcuna guerra mondiale. Il messaggio contro l’uso di armi chimiche è stato chiaro ma sarà difficilmente determinante.
Uno scontro diretto tra le potenze coinvolte non è nell’interesse di nessuno e Trump nutre l’intenzione di ritirare le truppe dalla Siria al più presto, ora che ISIS è stato sconfitto – almeno militarmente – anche se sembra che dopo averne parlato con Macron il presidente Usa abbia cambiato idea (sebbene da Washington arrivino smentite).
La guerra sul campo proseguirà come è proseguita sinora e non sono da escludere futuri attacchi chimici, come futuri atti di rappresaglia per il loro uso, come in parte annunciato; ma nessun vero intervento militare per cambiare le sorti di un conflitto, che ha già definito i suoi vincitori.
di Samantha Falciatori