Nel 2015 il senato americano ha votato la modifica del Patriot Act, la legge che permetteva alla National Security Agency di archiviare dati delle chiamate di privati cittadini americani, a loro insaputa. A due anni dal datagate provocato dalle rivelazioni di e. Snowden, la vicenda statunitense sembra trovare una soluzione provvisoria, ma impone una riflessione sull’utilizzo, le opportunità ed i rischi dei big data.
Adottata come complemento della politica antiterrorismo post 11/09, la sezione 215 della modificata legge, è stata sostituita con il voto dello USA Freedom Act, che limita i poteri di spionaggio della Nsa, ma lascia nelle mani delle compagnie telefoniche private un’enorme quantità di dati in transito verso e dagli Stati Uniti.
Che la riforma sia il risultato delle rivelazioni dell’informatore Snowden – ad oggi ricevente asilo nella benevola Russia – o di una sfavorevole congiuntura in cui, agli imbarazzi internazionali creati da un programma di sorveglianza massiva, si è sommato il disaccordo dell’opinione pubblica interna, ci troviamo davanti a un riequilibrio di pesi.
Come dichiarato dallo stesso Snowden in un’intervista al New York Times:
“The balance of power is beginning to shift. We are witnessing the emergence of a post- terror generation, one that rejects a worldwide defined by a singular tragedy. For the first time since the attacks of Sept. 11, 2001, we see the outline of a politics that turns away from reaction and fear in favour of resilience and reason.”
Lo smantellamento del sistema di spionaggio interno statunitense, il più importante freno imposto ai poteri della Nsa dal 1978, potrebbe rappresentare un passo verso un cambiamento di paradigma in cui la società americana chiede e riesce a svincolarsi da una delle vicende dominanti della narrativa che più di ogni altra ha influenzato la conduzione della politica nazionale ed estera statunitense degli ultimi anni.
Se sul piano interno, lo svelato programma ha infatti favorito un dibattito su quale sia l’esile confine tra lecito ed illecito e sulla necessità di ribilanciare il rapporto tra governati e governanti (ridimensionando il potere di controllo statale su libertà personale e privacy), a livello internazionale rimangono ancora numerosi punti d’ombra.
La digitalizzazione dei processi economici, produttivi e politico-sociali ha introdotto una serie di rivoluzioni su scala globale, le cui implicazioni politiche si sono traslate anche allo spazio della guerra, della sicurezza e della diplomazia, aprendo nuove incognite riguardo a un abuso del suo potenziale.
Lo sdoganamento dei droni per usi militari segna il definitivo trascendere della guerra dalla dimensione spaziale facendola somigliare a un gioco virtuale, il concetto di sicurezza viene nuovamente ampliato includendo quello di cyber security, rendendo un attacco di pirateria informatico un vero e proprio atto di guerra e terrorismo.
Inoltre, lo scandalo provocato dal programma statunitense, ha svelato un latente modus operandi dei soggetti internazionali – e per primi di alcuni paesi europei – nel condurre le loro relazioni reciproche. Per garantire la propria sicurezza e sopravvivenza, anche i più strenui difensori del principio westphaliano di sovranità (che dovrebbe riflettersi precisamente nel riconoscimento e rispetto della sovranità altrui) contribuiscono al profilarsi di uno scenario internazionale incerto in cui, come teorizzato da Aron, se nessuno è preso di mira, nessuno è al riparo.
Come ogni fenomeno globale complesso, anche la digitalizzazione richiede di definire alcuni princìpi, confini e procedure di gestione, al fine di creare una governance internazionale che sfrutti e ampli il potenziale delle sue applicazioni, anzichè ridurlo a mezzo di cospirazione.
La possibilità di misurare, analizzare, prevedere (o prevenire) fenomeni di differente scala e complessità in tempo reale è concreta, ma ogni opportunità di innovazione e progresso è soggetta allo scopo cui vengono destinati i dati estraibili da reti di sensori, dai social media o dall’utilizzo di dispositivi GPS, quindi dalla capacità di incanalare tendenze e preferenze collettive verso l’emergere di un sistema più egualitario e di società più intelligenti.
Ad anni di distanza dalla tragedia terroristica che ha alimentato la paranoia americana ed internazionale, lo svelato programma di metadati è la scusa per chiedersi se la rivoluzione digitale in cui siamo immersi ci guiderà verso una tirannia in cui l’accumulazione, l’uso e la commercializzazione di dati privati ci renderà meno liberi e più vulnerabili, o se ne saremo invece favoriti trovando nuovi linguaggi, modi e spazi di partecipazione politica.
Sperando che quella dell’era digitale non sia solo fantapolitica, il provocatorio manifesto Data Will Help Us presentato alla mostra Big Bang Data dall’artista J. Harris, insinua qualche ulteriore dubbio o se preferite, spunto di riflessione:
“Data will help us remember, but will it let us forget? It will help politicians be elected, but will it help them lead? It will help soldiers kill enemies remotely with drones, but will it help us see war as more than a game? It will help us uncover the facts, but will it help us to be wise? It will help us see the world as it is, but will it help us see the world as it could be?”
di Marzia Scopelliti