Il curioso caso del Cile tra sviluppo apparente e disuguaglianza

Il 17 ottobre del 2019 il popolo cileno si è ribellato al rincaro del prezzo del biglietto della metro di Santiago. Eppure guardando più in profondità il popolo cileno si è levato contro il sistema socio-economico-politico nel quale vive da decenni.


Oltre ad una diffusa povertà, la piaga principale che colpisce i paesi dell’America Latina è senza ombra di dubbio la disuguaglianza. Come abbiamo scritto in questo articolo, sono davvero molti i paesi della regione a figurare tra i più diseguali al mondo.

Emblematico è il caso del Cile.

[Una panoramica di Santiago del Cile]. Credits to Christian Cordova

Il paese andino è stato spesso descritto, negli ultimi anni, come una realtà virtuosa, soprattutto in un’ottica comparata rispetto agli altri paesi del Sud America, ma si è addirittura parlato in termini entusiastici di quello che è stato etichettato in passato come il “miracolo cileno”.

Ed in effetti, se si prendono in esame alcuni parametri macroeconomici di sicura rilevanza, non si può fare a meno di notare come il Cile sia di gran lunga il paese economicamente più prospero dell’intero panorama latinoamericano e caraibico.

Non a caso risulta essere l’unico paese della regione a fare parte dell’Ocse. Ha un Pil pro capite di 25 mila dollari l’anno, simile a quello del Portogallo. L’inflazione, da sempre una spina nel fianco per le economie dell’America Latina, si mantiene ad un livello piuttosto basso, tenendo conto della situazione generale nella parte centro meridionale del continente americano. Il debito pubblico è pari a meno di un quarto del Prodotto Interno Lordo.

 

 

 

Esaminando questi dati risulta veramente difficile remare contro la diffusa retorica del “miracolo” economico.

Eppure, dalla metà di ottobre del 2019, milioni di persone sono scese nelle piazze di Santiago, Concepción e Valparaìso per protestare contro il governo di Sebastian Piñera.

[Il presidente del Cile, Sebastian Piñera]. Credits to Claudio Reyes/AFP

Le manifestazioni sono cominciate a causa dell’entrata in vigore di un aumento di 30 pesos del prezzo del biglietto della metropolitana di Santiago nell’ora di punta.

I primi a mobilitarsi sono stati gli studenti delle università della capitale, che hanno cominciato a scavalcare i tornelli nelle stazioni della metro, per poi prendere d’assalto le carrozze dei treni.

[Gli universitari scavalcano i tornelli durante le proteste per il caro-biglietti nella metro di Santiago]. Credits to AP

Ben presto le proteste si sono diffuse a macchia d’olio in tutta la città, e in seguito in tutto il paese.

Il governo non è sembrato in grado di comprendere immediatamente la portata degli eventi, tanto che alcune testate cilene avevano riportato dichiarazioni piuttosto discutibili da parte di esponenti dell’esecutivo.

C’era chi aveva consigliato a coloro che erano scesi in piazza di svegliarsi prima per non prendere la metro durante l’ora di punta, evitando di pagare il rincaro previsto.

[Una corriera presa d’assalto e data alle fiamme dai manifestanti]. Credits to Esteban Felix/AP

In realtà il presidente è stato ben presto costretto ad indire il coprifuoco ed a richiedere l’intervento dei militari per cercare di tenere sotto controllo la situazione, affidando il comando delle operazioni al generale Javier Iturriaga. Anche le dichiarazioni dell’esecutivo si sono fatte di tutt’altro tenore: lo stesso Piñera ha affermato di trovarsi in guerra.

[L’esercito per le strade di Santiago. Non accadeva dai tempi di Pinochet]. Credits to Pedro Ugarte/AFP/Getty Images

Le immagini dei militari per le strade di Santiago hanno riportato alla memoria degli abitanti del Cile, e non solo, i terribili anni della dittatura del generale Augusto Pinochet, il cui ministro delle finanze è il fratello dell’attuale presidente.

Di “pinochetiana” memoria sono anche le voci che si sono da più parti levate per denunciare gli abusi subiti dai manifestanti ad opera delle forze di sicurezza.

Durante le proteste si sono contati 27 morti mentre i feriti hanno raggiunto le seimila unità. Dopo sole due settimane dall’inizio delle proteste si erano registrati già migliaia di arresti. Alcune delle persone che sono finite sotto la custodia delle forze di sicurezza hanno dichiarato di essere state torturate ed i partiti all’opposizione hanno denunciato imponenti violazioni dei diritti umani da parte del governo Piñera.

Il presidente ha negato ogni accusa ed ha formalmente dichiarato di essere ben disposto ad accogliere una delegazione delle Nazioni Unite che possa accertare come sono realmente andate le cose.

Ma quali sono i motivi che hanno spinto il Cile del “miracolo” economico sull’orlo di una guerra civile?

Una cosa è certa: il rincaro del prezzo del biglietto della metropolitana è stata soltanto la goccia che ha fatto traboccare un vaso che da decenni è ormai pieno. Le radici del malcontento popolare sono da ricercare nel passato più remoto del paese andino.

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Secondo un rapporto pubblicato nel 2017 dal Pnud, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo del Cile, il principale problema del paese è la diseguaglianza. E la sua origine deriva dalla distribuzione delle terre operata in epoca coloniale dalla Spagna.

Il fatto che i coloni “bianchi” avessero ottenuto tutti gli appezzamenti di terreno disponibili, pose le basi per la creazione dell’élite cilena. Questa situazione si è protratta nei secoli per arrivare fino ad oggi: la Comisión Ecónomica Para América Latina y el Caribe (Cepal) afferma che un decimo della ricchezza del Cile è controllato da solo 550 famiglie. Mentre oltre la metà dei nuclei famigliari cileni non arriva a percepire cinquemila dollari l’anno, il 10% più ricco vanta un reddito pari a 760 mila dollari.

Stando ai dati della Banca Mondiale, prendendo in considerazione il coefficiente di Gini, nel 2014-15 il Cile era il paese dell’America Latina che presentava il maggior livello di diseguaglianza.

Prendendo, invece, in considerazione l’indice Palma, ovvero un indicatore che misura la forbice tra i redditi del 10% più ricco della popolazione e quelli del il 40% più povero, il Cile si trovava addirittura in seconda posizione a livello mondiale, preceduto soltanto dal Qatar.

[Misura della disuguaglianza secondo l’indice di Gini]. Credits to World Bank
[Misura della disuguaglianza secondo l’indice Palma]. Credits to World Bank

Bisogna considerare che già nel 2006 e nel 2011 gli studenti universitari cileni erano scesi in piazza per richiedere una distribuzione più equa della ricchezza. I governi presieduti da Michelle Bachelet e dallo stesso Piñera avevano promesso l’attuazione di riforme che avrebbero dovuto attenuare la grande disuguaglianza di cui il Cile è vittima.

Ed in effetti negli ultimi anni si è registrato un miglioramento, con l’indice di Gini che è sceso al 46,6%, rimanendo però di gran lunga il più elevato dell’intero Sud America.

Per capire meglio le motivazioni che hanno spinto il popolo cileno a protestare in modo così violento contro il proprio governo è necessario, però, guardare anche al passato più recente e tragico del paese andino.

I parametri secondo i quali il Cile era considerato un paese economicamente virtuoso sono il frutto delle politiche adottate durante gli anni della dittatura militare.

[Il generale Augusto José Ramon Pinochet Ugarte]. Credits to AP

All’epoca il paese divenne il campo di prova per l’applicazione pratica delle teorie neoliberiste di Milton Friedman e della scuola di Chicago.

Lo stato aveva ridotto al minimo il proprio intervento pubblico, ma invece che lasciar spazio alla “mano invisibile” in un mercato regolato, il potere economico venne accentrato nelle mani di una sparuta élite, che perse di vista le branche della vita sociale. In pratica il sistema di welfare, già scarso, si dissolse.

Ciò ha determinato una poderosa crescita del Pil del paese ma ha anche avuto effetti che possiamo definire controversi.

Le fasce più povere della popolazione sono abbandonate a loro stesse, in quanto lo stato ha appaltato a compagnie private o fondi di investimento vicini alla politica molte delle prerogative tipiche del welfare.

Ovviamente questi servizi sono a pagamento e, dunque, fuori dalla portata della maggioranza della popolazione.

Basti pensare al sistema scolastico. Le famiglie cilene sono costrette ad indebitarsi per mandare i propri figli a scuola. Questo accade perché generalmente la scuola pubblica, che pure esiste, fornisce un’educazione approssimativa, le classi sono composte anche da 50 alunni, con evidenti ripercussioni per l’istruzione del singolo studente.

I cileni sono costretti a pagare rette molto alte per mandare i propri figli nelle scuole private, che sono le migliori del paese. Anche l’istruzione universitaria è decisamente molto onerosa: si pensi che il costo medio della retta è pari a tremila dollari l’anno, una cifra che si avvicina a quelle che in Italia vengono pagate da famiglie con reddito medio per l’università pubblica. Il problema è che lo stipendio medio in Cile si aggira attorno ai 650 dollari al mese.

[I manifestanti protestano per la situazione della scuola pubblica]. Credits to Mario Ruiz/EPA

Stesso discorso riguarda il sistema sanitario. Per potersi curare nel migliore dei modi i cileni sono costretti a recarsi presso costosissime cliniche private, in quanto gli ospedali pubblici non garantiscono standard sufficienti. Anche in questo caso i cittadini del Cile sono costretti a pagare di tasca loro perché il sistema funziona grazie alle assicurazioni sanitarie, ma la maggioranza della popolazione si avvale dell’assicurazione pubblica che non copre i costi della maggior parte delle terapie.

Ciò che però ha determinato le maggiori proteste è il sistema pensionistico, diretta eredità del regime di Pinochet.

In questo campo lo stato è totalmente inesistente, fatta eccezione per i militari che all’epoca della dittatura erano tutelati, e possono godere di un sistema contributivo più simile a quello esistente nei paesi europei.

I cileni versano ogni mese una quota pari al 10% del loro stipendio in fondi pensione. Questi ultimi investono il denaro così raccolto e garantiscono una pensione grazie alle rendite di tali operazioni finanziarie. Il problema è che a fronte di lauti guadagni da parte dei fondi di investimento, le pensioni erogate sono decisamente basse. Addirittura al di sotto di quello che dovrebbe essere il salario minimo garantito nel paese, pari a circa 410 dollari al mese.

Sono ormai dieci anni che si parla di riformare il sistema pensionistico cileno, ma pochi progressi sono stati fatti. Il governo Piñera è riuscito ad introdurre un leggero cambiamento, approvando una legge che obbliga il datore di lavoro a pagare al fondo pensione il 4% dello stipendio del dipendente, ma non si sono ottenuti risultati apprezzabili.

Inoltre è stata introdotta una pensione “sociale” per coloro che non hanno un lavoro e quindi non possono versare una parte del proprio salario per finanziare i fondi pensione. Nonostante alcuni aumenti di tale pensione “sociale”, la situazione rimane critica.

Gli abitanti del Cile vivono situazioni simili a quelle descritte, in tutti i campi della vita. Anche fare la spesa, da quelle parti, è un’operazione molto costosa.

Questo perché l’assenza di una regolamentazione del mercato ha determinato l’affermarsi di una situazione non concorrenziale in quasi tutti i settori.

Nel sistema pensionistico, in quello sanitario, nella grande distribuzione esistono situazioni monopolistiche od oligopolistiche. Le poche aziende presenti nei diversi mercati si accordano per mantenere elevati i prezzi a tutto danno del consumatore cileno, che come abbiamo visto non naviga esattamente nell’oro.

Se è dunque vero che le politiche economiche neoliberiste hanno consentito al paese di raggiungere ottimi risultati rispetto ad alcuni importanti parametri economici, il prezzo di tale sviluppo è ricaduto totalmente sulle masse popolari, già vessate dalla diseguaglianza di cui il paese è ostaggio da secoli.

[La favelas di Campamento a Santiago del Cile]. Credits to Patricio Fuentes

L’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana di Santiago, seguito ad un aumento delle tasse su luce e gas, in una situazione di per sé esplosiva, è stata la scintilla che ha determinato la deflagrazione.

In un’intervista a Il Foglio Eugenio Tironi – personaggio chiave della storia cilena, pragmatico consigliere socialista dell’ex presidente Patricio Aylwin, già direttore della Segreteria alla Comunicazione alla Cultura – ha messo in parallelo quello che sta accadendo in Cile con i movimenti sessantottini europei:

“In Cile c’è oggi una sindrome simile a quella che ci fu nell’Europa prospera e soddisfatta di fine anni Sessanta. La sensazione che si è fatto un grande sforzo, che si è avanzati materialmente, ma che la vita non ha senso. Che la democrazia è catturata da intermediari. Che la distanza economica e sociale tra il popolo e l’élite si mantiene o aumenta. Sono anche collassate alcune istituzioni in passato rispettate come la chiesa, la famiglia o i Carabineros”.

Eugenio Tironi
[Un dimostrante suona il tamburo di fronte ad un mezzo della polizia che spara acqua sulla folla di manifestanti]. Reuters/Edgard Garrido

L’8 marzo sono scese in piazza 2 milioni di donne, che rivendicavano tra le altre cose le istanze delle proteste di fine 2019. E le opposizioni hanno richiesto a gran voce una riforma della Costituzione.

I partiti politici sono riusciti ad accordarsi ed è stato indetto un referendum popolare, che inizialmente avrebbe dovuto tenersi in questo mese, aprile del 2020, ma che a causa della crisi pandemica relativa al virus SARS-CoV-2 è stato rimandato ad ottobre.

Prevedibilmente vincerà il fronte del “sì”, e la Costituzione, ereditata dalla dittatura di Augusto Pinochet, dovrà esser sostituita. A quel punto si procederà con l’elezione di un’Assemblea Costituente che avrà il difficile compito di smantellare il sistema politico-economico che tanto ha vessato il popolo del Cile. Nella speranza che il paese andino riesca finalmente a lasciarsi alle spalle il suo tragico passato, per dirigersi verso un futuro più radioso. E più equo.

di Riccardo Allegri