Il XXI Secolo e la morte del realismo nella politica internazionale

Il neorealismo, una delle principali scuole di pensiero nelle Relazioni Internazionali, è in profonda crisi. Cerchiamo di capirne i motivi.


Un articolo piuttosto recente dell’Huffington Post statunitense indica il guazzabuglio siriano come la dimostrazione che la dottrina realista domina la politica globale di oggi. La constatazione che i principali attori nella regione perseguano il proprio interesse nazionale piuttosto che accordarsi per mettere un freno ad anni di combattimenti sanguinari, sarebbe la prova che nella politica internazionale non ci sia spazio per la pietà, e il motivo sarebbe spiegato nientemeno che dalla scuola di pensiero politico nata con Tucidide e ad oggi rappresentata da quella che comunemente viene definita come “scuola neorealista delle relazioni internazionali”.

Aldilà del luogo comune “realismo=cinismo”, occorre invece constatare come, attualmente, il neorealismo politico viva una fase di profonda crisi. Per cominciare, da molto tempo non è più in grado di guidare le azioni del Paese più potente del mondo. Un altro articolo, questa volta di Foreign Policy, spiega come e perché un’agenda estera di stampo realista manchi sulla scrivania della Segreteria di Stato americana sin dalla fine della Guerra Fredda. La ragione è comprensibile: quando si è diventati la potenza egemone dell’intero sistema internazionale si è tentati di non preoccuparsi troppo per la propria sopravvivenza, persino quando quest’ultima costituisce il mantra di ogni realista, classico o “neo” che sia. 

In realtà non sono tutti d’accordo con questa visione della politica estera di Obama. Si prenda ad esempio un lungo articolo della rivista National Interest, in cui vengono spiegate attraverso l’ottica realista molte delle scelte dell’attuale Presidente. Meno determinato nel definire realista Obama è invece il New York Times, che però fa notare come “l’irredentismo” di Donald Trump si possa leggere come una reazione al “realismo da XXI Secolo di Obama”Anche Politico sostiene che la politica estera di Obama, imbonita da retorica idealista, sia stata in realtà molto più realista di come è apparsa: “Come tutti i presidenti americani del dopoguerra, anche Obama parla in termini sacri della missione globale degli Stati Uniti. Le sue azioni però rivelano una certa avversione per lo zelo missionario”, scrive Fred Kaplan.

La discussione è aperta, ma possiamo già dire con un certo margine di prevedibilità che Hilary Clinton non farà altro che dare continuità alla politica estera adottata dalla presidenza attuale (di qualsiasi stampo sia), aggiungendo e rafforzando la demarcazione tra “buoni e “cattivi” che lei stessa ha contribuito a tracciare in qualità di Segretario di Stato. D’altra parte, alcuni hanno visto nell’isolazionismo promesso da Donald Trump un ritorno al realismo politico; tuttavia, in un’epoca in cui, volenti e nolenti, si è la sola superpotenza mondiale, scegliere di rintanarsi nel proprio cortile di casa risulta una posizione ideologica esattamente come il supposto democratismo armato di Obama e Clinton.

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I problemi della dottrina neorealista non si limitano tuttavia al solo fatto di non essere applicata per la politica che conta. Per essere più precisi, la mancata notorietà di questo “sistema di pensiero” non è che la conseguenza della rigida inadeguatezza dimostrata dallo stesso, nell’affrontare un sistema globale mutevole e – usando un termine oggi caro a molti studiosi – imprevedibile (vocabolo che potrebbe suonare come una vera e propria dichiarazione di resa).

Per risalire alle radici della crisi del neorealismo occorre partire con ordine, cominciando dalle ragioni che hanno portato alla sua nascita.


Il neorealismo politico, dall’inizio.

Con la fine della Prima Guerra Mondiale inizia a farsi strada all’interno della teoria politica internazionale la scuola liberale con la sua idea di “pace democratica”. Secondo i “liberali” gli Stati possono evitare di farsi la guerra e preoccuparsi di trovare i mezzi per sopravvivere ricorrendo al libero commercio, alla formazione di organismi internazionali in grado di risolvere le controversie in via pacifica e, in un’ultima istanza, eliminare la componente anarchica all’interno del sistema globale, istituendo un insieme di leggi internazionali a cui tutti gli Stati potranno fare affidamento.

Questa teoria è intrinsecamente legata all’ascesa del sistema politico democratico, che dopo la Seconda Guerra Mondiale ha assunto un carattere globale (anche se solo formalmente: oggi pochi paesi si dichiarano apertamente autocratici, sebbene le democrazie che si possono definire tali costituiscano una minoranza). Uno dei più importanti paradigmi della scuola di pensiero liberale nelle relazioni internazionali è che “le democrazie sono meno propense a farsi la guerra tra di loro”. La conseguenza logica di questo assioma è quindi che se tutti i paesi del mondo adottassero dei sistemi politici democratici, allora la dimensione del conflitto (e della violenza) risulterebbe di molto attenuata.

Il neorealismo ha operato per confutare le posizioni della scuola liberale, spiegando come la struttura politica all’interno del paese non fosse il fattore decisivo per la sua politica estera. Kenneth Waltz, uno dei suoi padri fondatori del neorealismo, spiega come in ogni epoca, i sistemi o il sistema globale abbiano una struttura ben precisa nella distribuzione del potere (a somma zero), indicato dal numero di grandi potenze presenti. Sempre secondo il neorealismo, elementi quali trattati commerciali, accordi multilaterali, organizzazioni internazionali, sono al meglio una cartina di tornasole dell’equilibrio di potenza tra gli attori dell’ordine internazionale vigente. La sola, vera, discriminante all’interno dello scenario globale è tra le grandi potenze, in grado di dettare la propria agenda fin dove le altre potenze loro pari glielo consentano; tutti gli altri Stati, volenti o nolenti, si troveranno a dover seguire le decisioni prese dalle prime.

Le decadi della Guerra Fredda, durante le quali si svilupparono le posizioni neorealiste, aiutarono parecchio la neonata scuola ad affermarsi sia dal punto di vista accademico, sia dal punto di vista dell’influenza politica. L’equilibrio creatosi tra Usa e Urss e la loro capacità di imporsi sul resto del pianeta erano la rappresentazione perfetta del sistema internazionale waltziano: stabile, ordinato, focalizzato sulla dimensione dell’Hard Power: un sistema che era, soprattutto, prevedibile.

Il crollo dell’Unione Sovietica ha costituito il primo colpo inflitto alle certezze dei neorealisti. Mosca in teoria era l’ultimo tra i paesi a dover temere per la propria sopravvivenza, dotata dell’esercito di terra più numeroso al mondo e del maggior numero di testate nucleari. Furono soprattutto le modalità con le quali l’Urss cadde a sconvolgere le posizioni neorealiste: non sconfitta sul campo di battaglia da una forza armata più forte, ma crollata sotto il peso delle proprie contraddizioni interne (anche grazie alla strategia vincente di lungo periodo degli Stati Uniti).

45.000 testate nucleari per poi ritrovarsi a implodere a causa di qualche manifestazione. Un paradosso per il pensiero realista del tempo. Desmond Boylan/Reuters
45.000 testate nucleari per poi ritrovarsi a implodere a causa di qualche manifestazione. Un paradosso per il pensiero realista del tempo – credits: Desmond Boylan / Reuters

Con l’avvento dell’unilateralismo americano, il neorealismo ha iniziato a faticare sempre di più a trovare una propria dimensione. Certo, alcune intuizioni neorealiste si sono rivelate, almeno fino ad oggi, azzeccate. L’Onu, e tutte le sue diramazioni, è ridotto a cassa di risonanza buona solo a scatenare polemiche del tutto irrilevanti dal punto di vista politico, buone per essere date in pasto ai media. L’Unione europea è da anni in crisi proprio perché non sembra in grado di superare il paradigma neorealista del potere, collocata sulla soglia tra l’essere un organismo internazionale e una confederazione con poteri di coercizione: non appena si parla di esercito comune o di istituti legislativi realmente vincolanti, c’è sempre un gruppo di Stati membri che non perde occasione di mettere le barricate. Organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale d’altro canto non fanno altro che riflettere i rapporti di forza attualmente vigenti tra gli Stati.

Il realismo forse sarà riuscito a smentire alcune delle illusioni su cosa lo scenario politico internazionale sarebbe diventato nel XXI Secolo, dalla Pace Democratica alla Fine della Storia immaginata da Francis Fukuyama. Resta tuttavia il grosso problema di essere al contempo incapace a sua volta di spiegare quale direzione stia prendendo la politica globale. Sono in particolar modo tre gli aspetti che ostacolano l’applicazione della dottrina neorealista al mondo contemporaneo:

  • la definizione di “potere” è obsoleta – letteralmente; per il neorealismo il potere coincide con quello che più comunemente viene definito “Hard Power“, ossia la potenza militare e quei fattori economici e sociali ad essa ricollegabili (presenza di materie prime, capacità industriale, demografia e via dicendo). Eppure qualche giorno fa si è saputo che un gruppo di hacker cinesi è riuscito a mandare letteralmente in tilt la portaerei americana Ronald Reagan, hackerandone il sistema informatico. Oggi manca un’adeguata narrazione realista del cyberspazio, e della cyberwarfare. Continuare a focalizzarsi su strategie militare, sul dispiegamento di flotte e truppe non aiuta a comprendere ciò che sta accadendo realmente, ovvero che un attacco informatico ben piazzato sarà ben più temibile di un bombardamento aereo, avrà un minor costo in termini di vite umane, monetari e di immagine internazionale (secondo lo stesso principio per cui l’opinione pubblica tende a essere meno indignata verso i crimini “non violenti” dei colletti bianchi rispetto a rapine condotte in maniera “fisica”).
  • cambiando la dimensione del potere, muta a sua volta la dimensione degli attori – questo punto si lega a doppio filo con il primo. Da sempre il modello neorealista è vissuto in maniera simbiotica con quello dello stato centralizzato, naturalmente venendone influenzato a propria volta. Nel corso del XX Secolo lo Stato ha dato prova, in maniera perlopiù terribile, della sua capacità di catalizzare ogni risorsa, materiale, immateriale e umana, al proprio interno, per poi scatenarla violentemente verso l’esterno. Questo vero e proprio delirio di onnipotenza sta tuttavia cominciando a vacillare con l’avvento del cyberspazio (ironico, considerato che Internet – con la “i” maiuscola? – fu un’invenzione militare). Il web è in gran parte uno territorio vergine dove gli Stati operano come tutti gli altri attori, incapaci di imporre le proprie regole. A venire intaccata è inoltre la ragione d’essere di tutti gli Stati: il monopolio sulla sicurezza. In ambito informatico non c’è apparato statale burocratico capace di poterla garantire ai propri cittadini, che si rivolgono ad operatori privati. La legislazione europea in materia di sicurezza informatica inoltre sancisce che se un’azienda subisce un attacco informatico e non è in grado di dimostrare di aver messo a punto misure di sicurezza adeguate, quest’ultima è a sua volta imputabile. In altre parole, una vera e propria rinuncia al controllo sulla sicurezza da parte governativa, poiché equivarrebbe a punire la vittima di un furto per non essersi adeguatamente armata prima.
  • Attori diversi e orizzonti diversi: l’idea di “sistema” nel neorealismo, dove tutti i suoi componenti si comportano allo stesso modo, è senz’altro il risultato di un mondo Stato-centrico, dove a competere per il potere vi è una sola tipologia di attore. Come già detto, però, la sicurezza nel prossimo futuro non sarà più un’affare esclusivo degli Stati, almeno per quanta riguarda l’ambito “virtuale”. Tra operatori privati, aziende, o persino singoli hacker, è pretenzioso pensare che la loro personale agenda per il potere coincida con quella degli Stati. Con ogni probabilità le esigenze saranno di natura molto diversa, e se non si è in grado di spiegare quali leve muovono un operatore verso la sua rincorsa al potere, ogni tipo di analisi resta sterile.

Nel XXI Secolo la guerra la si combatterà soprattutto in questo modo
Cadetti alla Us Air Force Academy durante una sessione di addestramento: nel XXI Secolo la guerra la si combatterà soprattutto in questo modo – credits: Raymond McCoy / Air Force Photo

La crisi del neorealismo di fatto si lega a quella, più in generale, dell’intera dottrina politologica, che di fronte a un mondo che muta sempre più rapidamente fatica a svolgere il suo ruolo premonitore limitandosi a lavorare in maniera empirica. Forse però non tutto è perduto, in quanto l’indole degli operatori politici ad agire in maniera amorale è più antica della scuola di pensiero nata con lo scopo di interpretarla.

Ciò che occorre è, semplicemente, aggiornarsi coi tempi, ad esempio passando da una concezione di “sistema” ad una di “ecosistema”, i cui componenti non sono oggetti che reagiscono agli stimoli della struttura, bensì soggetti, distinguibili per categoria, obiettivi e tutta un’altra serie di parametri di livello più qualitativo, che quantitativo.

Ci serve insomma una nuova teoria delle Relazioni Internazionali.

di Mirko Annunziata