La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Russia, Iran e Turchia stanno definendo il futuro politico della Siria, con Assad ancora al potere e con l’avallo internazionale. Come potrà funzionare e quali sono le implicazioni di queste decisioni?
La sconfitta militare di ISIS in Siria ha dato nuovo impeto al fronte diplomatico del conflitto, con colloqui decisivi tenutisi a Sochi, Riyad e – in questi giorni – a Ginevra, che stanno definendo il futuro del Paese. In realtà però le operazioni militari continuano, soprattutto nell’area di Ghouta, territorio assediato in cui, secondo un rapporto Unicef, si stimano esserci 400mila persone (di cui la metà bambini) malnutrite e senza accesso a cure e assistenza.
Apripista di questa nuova fase è stata la visita il 20 novembre di Bashar al Assad a Putin, che lo ha ospitato a Sochi. Putin ha esortato il suo alleato a concentrarsi sulla fase politica per arrivare a elezioni presidenziali e parlamentari, cosa che Assad si è detto disposto a fare. Dopo la visita Putin ha contattato telefonicamente Trump, il re saudita Salman, il primo ministro israeliano Netanyahu e il presidente egiziano al-Sisi.
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La visita di Assad, comunicata dal Cremlino ad incontro avvenuto, ha lanciato un messaggio politico molto forte a due giorni dall’incontro di alto livello, tenutosi sempre a Sochi il 22 novembre, tra Putin, Erdogan e Rouhani, i leader delle tre potenze garanti dei colloqui di Astana.
I tre hanno raggiunto un accordo sulla proposta russa di un Congresso di Dialogo Nazionale siriano per aprire un processo di pace parallelo a quello dell’ONU a Ginevra. Il Congresso dovrebbe delineare una nuova Costituzione siriana, entro cui indire nuove elezioni supervisionate dall’ONU in cui Assad potrebbe concorrere, e una ristrutturazione dello Stato. Indici delle difficoltà che dovranno essere affrontate sono state però le dichiarazioni di Erdogan, che vorrebbe escludere dal Congresso i curdi dell’YPG che amministrano il Rojava, e di Rouhani, che ha definito “inaccettabile” la presenza di truppe straniere non invitate in territorio siriano dal regime.
In una dichiarazione congiunta, i tre leader hanno sottolineato la necessità per tutte le parti in conflitto di rilasciare i prigionieri e gli ostaggi, consegnare i corpi e creare le condizioni per una tregua duratura. Putin ha sottolineato che “saranno necessari compromessi e concessioni da tutte le parti, incluso il governo siriano“.
Come ciò sarà possibile resta un’incognita, dal momento che finora i colloqui di pace non hanno prodotto risultati, sia perché Assad ha sempre rifiutato di dimettersi, sia perché l’opposizione ha sempre rifiutato di iniziare un processo politico di riconciliazione con lui ancora al potere.
A ciò si è aggiunto il fatto che con l’intervento militare russo in Siria nel 2015 il regime si è assicurato la sopravvivenza, avendo dunque interesse a perseguire la soluzione militare, piuttosto che quella politica. A riprova di ciò, proprio in questi giorni di colloqui di pace internazionali, il regime siriano e l’aviazione russa hanno lanciato una massiccia offensiva sui sobborghi assediati della Ghouta orientale (a Damasco), uccidendo decine di civili – nonostante Ghouta sia una zona di de-conflitto sancita dagli accordi di Astana. È quindi difficile negoziare mentre i civili muoiono ancora sotto le bombe e sotto gli assedi.
Ma ora che il regime è salvo e che le potenze mondiali, compresi gli Stati Uniti e i Paesi europei, hanno di fatto accettato lo status quo, Assad non ha alcun incentivo a fare concessioni all’opposizione, anzi.
È quest’ultima a trovarsi in una posizione negoziale debole e lo dimostrano le dimissioni di Riyad Hijab, presidente dal 2015 dell’opposizione siriana (l’Alto Comitato di Negoziazione, HNC), nonché ex Primo Ministro siriano sotto Assad, e di altri nove esponenti dell’opposizione.
Un colpo di scena giunto poche ore prima della seconda conferenza dell’opposizione organizzata dall’Arabia Saudita a Riyad – dopo quella del dicembre 2015 – allo scopo di unificare i vari gruppi per i colloqui di pace ONU ripresi a Ginevra il 29 novembre, a cui l’opposizione si è presentata con un nuovo leader eletto, Nasr Hariri.
Sebbene Hijab non abbia motivato la decisione, la ragione è da ascrivere al fatto che i colloqui di pace rafforzeranno la posizione del regime e delle agende straniere sue alleate, con la partecipazione di altri gruppi di “opposizione” sostenuti da Mosca e Damasco, che in realtà hanno posizioni vicine al regime e che pertanto non sono considerati interlocutori legittimi dall’HNC. Infatti, quei gruppi si oppongono alle dimissioni di Assad e hanno boicottato la conferenza di Riyad.
Una conferenza nella cui dichiarazione finale l’HNC ha ribadito la necessità delle dimissioni di Assad, perché nessuna transizione politica potrà avere successo altrimenti.
Tra i delegati dimissionari c’è anche Suheir Al-Atassi, che ha denunciato come la comunità internazionale abbia fatto pressioni per costringerli ad accettare la permanenza di Assad al potere, nonostante le brutali strategie impiegate nella guerra contro i civili, tra cui assedi, riduzione alla fame, bombardamenti a tappeto, uso di armi chimiche e altre armi proibite dal diritto internazionale, stupri di massa ecc… come da anni documentato dalle Commissioni di Inchiesta ONU e non solo, e nonostante gli ordini di torture ed esecuzioni di massa di civili portino la firma di Bashar al Assad, come provato da circa 600.000 documenti autografi trafugati da alcuni disertori.
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Secondo l’opposizione, Putin, nonostante le smentite, sta minando il processo di pace ONU a favore di un processo separato con delegati selezionati dalla Russia e vicini al regime siriano. Per questo Putin ha accolto con favore le dimissioni, sostenendo che permetteranno di avere un’opposizione “più realistica”; che in altri termini significa più accomodante verso il regime e disposta ad accettare Assad al potere.
Ciononostante, il neoeletto leader dell’opposizione ha chiesto alla Russia, al primo giorno di colloqui a Ginevra, di esercitare pressione sul suo alleato siriano affinché si impegni seriamente a negoziare la pace e a raggiungere un accordo entro sei mesi.
Un altro attore di cui Assad sta cercando di incassare il consenso con una concessione è Israele. Avrebbe infatti chiesto a Putin, durante la visita a Sochi, di comunicare a Netanyahu l’intenzione di istituire una zona smilitarizzata lungo il confine, sulle alture del Golan, secondo quanto riportato dal quotidiano kuwaitiano Al Jarida.
Secondo il Jerusalem Post, Netanyahu si sarebbe detto favorevole alla cosa, per arginare la presenza iraniana lungo i suoi confini. La condizione per questa zona cuscinetto sarebbe quella di accettare la permanenza di Assad al potere da parte israeliana.
Le implicazioni di uno scenario simile rischiano di essere drammatiche per la società civile siriana, perché una transizione con il regime di Assad al potere significherebbe ignorare le cause profonde del conflitto, che non erano legate all’ISIS, comparso in Siria nel 2013, ma all’assenza di libertà e diritti politici e civili nella Siria degli Assad, dinastia da 50 anni al potere, trasmesso di fatto di padre in figlio.
Resta il grosso interrogativo di come potranno i milioni di rifugiati fuggiti dalla repressione governativa, dai massacri e dalle persecuzioni del regime tornare nel loro Paese senza rischiare la vita e di come potrà la società, oggi così divisa su basi etnico-religiose, sanare le sue ferite con lo stesso regime, che ha contribuito a infliggerle nell’impunità più assoluta, ancora al potere.
di Samantha Falciatori