Dopo sei settimane di aspri combattimenti che hanno determinato la morte di 5.600 persone, i rappresentanti dei governi armeno ed azero si sono incontrati per firmare il cessate il fuoco. Il conflitto in Nagorno-Karabakh ha modificato gli equilibri nella regione del Caucaso Meridionale mentre i protagonisti della guerra sono ora concentrati sulla ricostruzione.
A 43 giorni dall’inizio delle ostilità nel Nagorno-Karabakh, la mattina dell’8 novembre del 2020, il Presidente azero Aliyev ha annunciato la conquista della città di Shusha da parte delle forze armate del paese.
Il centro abitato riveste una notevole importanza simbolica per il popolo dell’Azerbaijan, in quanto fu uno degli insediamenti più importanti del khanato del Karabakh per tutta la durata del XVIII e del XIX secolo, divenendone il principale centro politico e culturale.
La conquista della città da parte dell’esercito azero ha determinato la fine del conflitto che vedeva contrapposti gli abitanti dell’Artsakh, spalleggiati dai cugini armeni, e, per l’appunto, l’Azerbaijan.
Le forze di Erevan hanno dovuto prendere atto della superiorità militare dei loro avversari, che hanno potuto contare sul decisivo appoggio della Turchia, e sono state costrette a sedere al tavolo delle trattative con i rappresentanti di Baku. A mediare tra le parti, ovviamente, la principale potenza regionale, ovvero la Russia.
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L’abbattimento di un Mi-24 dell’esercito russo avvenuto per errore il 9 di novembre ad opera delle forze armate di Baku potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale nel condurre i belligeranti ad una tregua. Se l’incidente avesse spinto il Cremlino a decidere di intervenire nel conflitto a fianco di Erevan e Stepanakert, del resto, gli azeri si sarebbero improvvisamente trovati in serio pericolo.
In quel caso, qualora Ankara non avesse fatto un passo indietro, l’intera regione avrebbe corso il rischio di essere destabilizzata da una guerra su larga scala tra le due potenze.
Il 10 di novembre, dunque, i governi di Armenia, Azerbaijan e Russia hanno reso nota la firma di un accordo trilaterale che parrebbe aver posto fine alle ostilità. In base a quanto previsto dal trattato, una missione composta da 1960 peacekeepers russi sarebbe stata dislocata sul territorio conteso.
Le forze armene avrebbero dovuto operare un graduale ma rapido ritiro dai territori azeri ancora sotto il controllo di Erevan. Ritiro che avrebbe dovuto essere completato entro il primo di dicembre. I rifugiati, compresi quelli costretti a fuggire dalle proprie abitazioni a causa del primo conflitto in Nagorno-Karabakh del 1988-1994, avrebbero potuto fare ritorno alle loro case.
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Infine sarebbe stata garantita la ripresa dei rapporti commerciali interrotti dai combattimenti. In particolare, l’exclave del Naxchivan sarebbe stata collegata con l’Azerbaijan tramite un corridoio che avrebbe attraversato il territorio dell’Armenia, la quale, a sua volta, avrebbe mantenuto il collegamento con il Nagorno-Karabakh tramite il corridoio di Lachin. I militari inviati da Mosca avrebbero dovuto proteggere le due vie di comunicazione per evitare una recrudescenza nelle ostilità.
Sebbene le condizioni imposte all’Armenia fossero piuttosto umilianti, al punto da generare gravi proteste nel paese, Erevan era stata costretta ad accettare la sconfitta sul campo di battaglia e la pace pareva essere stata ristabilita.
Tuttavia, a poco più di un mese dalla firma dell’accordo trilaterale, le forze azere hanno ripreso l’iniziativa. Nella giornata del 12 dicembre 2020, infatti, i militari di Baku hanno dato il via ad un’offensiva volta a riconquistare alcuni insediamenti armeni in un’area del Nagorno-Karabakh fuori da quelle presidiate dai peacekeepers russi.
Il Cremlino ha immediatamente denunciato la violazione del cessate il fuoco, senza attribuirne le responsabilità. Se, infatti, il governo guidato da Pashinyan ha immediatamente puntato il dito contro le forze di Ilham Aliyev, quest’ultimo ha prontamente respinto ogni accusa, affermando che le azioni dei militari azeri erano una risposta alle provocazioni armene.
Ad ogni modo, la situazione è presto rientrata ed il cessate il fuoco è stato rapidamente ristabilito.
Le condizioni interne di Armenia ed Azerbaijan al momento della fine del breve conflitto, peraltro, non potevano essere più diverse.
Come accennato in precedenza, l’Armenia è stata attraversata da violente proteste a causa dell’umiliante accordo di pace firmato dal governo.
I manifestanti, riversatisi in gran numero per le strade delle maggiori città della nazione nonostante l’emergenza pandemica in corso, hanno richiesto a gran voce le dimissioni di Nikol Pashinyan. Quest’ultimo, dal canto suo, si è rifiutato di assecondare l’opposizione crescente nel paese, rimanendo traballante al comando. Egli ha giustificato le sue azioni affermando che se non avesse accettato le umilianti condizioni imposte dal trattato trilaterale, le ostilità sarebbero proseguite e l’intero Nagorno-Karabakh sarebbe finito sotto il controllo dell’Azerbaijan.
A Baku, invece, si è celebrata la vittoria nella guerra.
Del resto, per 26 anni il popolo azero ha atteso il momento in cui avrebbe potuto ristabilire l’integrità territoriale dello Stato, respingendo quelle che riteneva essere forze di occupazione armene. Il trionfo militare è stato celebrato con una parata nella quale hanno sfilato oltre 3.000 soldati azeri e turchi. Ad assistere all’evento, che ha visto anche l’esposizione di carri armati ed altri mezzi sottratti alle forze armene nel corso del conflitto, si è precipitato anche il Presidente turco Erdoğan, accompagnato dalla moglie.
La parata, i cui toni sono stati fortemente nazionalistici, ha preoccupato, e non poco, Erevan. Il Presidente Aliyev ha infatti ricordato come egli consideri buona parte del territorio dell’Armenia storicamente appartenente all’Azerbaijan.
Per contro, anche le parole pronunciate da Erdoğan sono state poco rassicuranti, almeno in ottica armena. Il Presidente turco ha infatti dichiarato che lo scontro con Erevan non poteva dirsi concluso con la sola riconquista del Karabakh.
In aggiunta, il presidente turco ha evocato il nome di Nuri Pasha, il comandante ottomano famoso per aver liberato l’Azerbaijan dall’occupazione sovietica e da quella dei Dashnaki di etnia armena. Non contento, Erdoğan ha pronunciato anche il nome del fratello di Nuri Pasha, Enver. Quest’ultimo ha risvegliato nelle menti del popolo armeno terribili ricordi. Egli infatti fu tra i responsabili del genocidio degli armeni ad opera dell’Impero Ottomano.
Con la fine delle ostilità il Nagorno-Karabakh ha avviato il lento processo di ritorno alla normalità. In particolare, il governo di Baku si è immediatamente attivato per consentire ai rifugiati azeri di riprendere possesso delle proprie abitazioni.
A tale proposito, però, saranno necessari ingenti investimenti da parte dell’Azerbaijan, in quanto la regione è stata teatro di due guerre sanguinose, l’ultima delle quali ha lasciato sul campo almeno 5.600 uomini in poco più di un mese di combattimenti. In aggiunta, gli insediamenti azeri, abbandonati nel 1994, sono in rovina, essendosi trasformati con il passare degli anni in vere e proprie città fantasma.
Nell’ambito della ricostruzione, Roma svolge un ruolo decisamente attivo. In una nota pubblicata il 18 dicembre l’Ambasciata italiana a Baku ha annunciato che la compagnia Ansaldo Energia avrebbe firmato un accordo per la ristrutturazione di quattro sottostazioni gravemente danneggiate dal conflitto.
La notizia è stata ripresa dallo stesso Aliyev, il quale, tramite i propri account social ha confermato che l’Italia e la Turchia parteciperanno a progetti infrastrutturali nelle aree colpite dalle ostilità. Il Bel Paese si è dimostrato particolarmente vicino al governo azero, probabilmente grazie agli interessi energetici e commerciali che legano le due parti.
Nelle settimane precedenti l’annuncio dell’Ambasciata, infatti, il Sottosegretario agli Affari Esteri, Manlio Di Stefano, si era recato in alcuni dei territori che maggiormente avevano sofferto a causa dei combattimenti. L’Italia è risultata essere il primo paese dell’Unione Europea ad inviare una propria delegazione in Nagorno-Karabakh dal momento della firma del cessate il fuoco.
Nel frattempo, su iniziativa del Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, Ilham Alyev e Nikol Pashinyan si sono incontrati a Mosca l’11 di gennaio.
Durante l’incontro trilaterale i leader dei tre paesi hanno discusso in maniera approfondita della ricostruzione delle aree maggiormente colpite dal conflitto.
In base al resoconto del colloquio, i tre uomini si sarebbero accordati per istituire un gruppo di lavoro che dovrà occuparsi delle spinose questioni ancora sul tavolo.
Sono infatti numerosi i prigionieri di guerra detenuti da ambo le parti e non è ancora del tutto chiaro se sarà effettivamente possibile mantenere aperte le vie di comunicazione che collegano l’exclave azera del Naxchivan e la parte armena del Nagorno-Karabakh ai rispettivi paesi. È inoltre interessante sottolineare che al momento dell’inizio dell’incontro, Aliyev e Pashinyan non si sono stretti la mano, scambiandosi soltanto poche formali parole.
Il primo meeting del gruppo di lavoro, che sarà composto dai vice premier dei tre paesi, è previsto per il 30 gennaio 2021. In quell’occasione verranno discussi anche gli investimenti infrastrutturali necessari a garantire la ristrutturazione delle vie di comunicazione interne alla regione del Nagorno-Karabakh. Ciò consentirebbe infatti una ripresa delle attività commerciali, dando respiro agli abitanti dell’area, vessati da trent’anni di conflitti.
Inoltre, permangono tensioni nelle regioni armene adiacenti all’Artsakh riguardo la definizione dei confini.
In definitiva, dunque, il conflitto che ha attraversato il Nagorno-Karabakh ha determinato un cambiamento negli equilibri regionali del Caucaso Meridionale.
L’Armenia ha subito una dura lezione ad opera delle forze armate azere, essendo infine stata costretta a firmare un accordo per il cessate il fuoco che ne ha minato la stabilità interna. Per non parlare poi del fatto che Erevan è stata obbligata a ritirare il proprio esercito da buona parte dei territori contesi.
Per contro, l’Azerbaijan ha ottenuto una grande vittoria in ambito militare ed Aliyev non potrà che goderne i frutti all’interno del paese. Dopo tutto egli è riuscito laddove i suoi predecessori avevano fallito, riguadagnando il controllo di buona parte dei territori che Baku aveva perduto nel corso della guerra del 1988-1994.
Il conflitto, poi, ha dimostrato, se ve ne fosse ancora bisogno, la maggiore assertività della Turchia e la grande influenza che il paese può vantare nell’intera regione.
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Per Mosca ciò è senz’altro un problema, visto che il Cremlino tende a ritenere il Caucaso Meridionale parte della propria esclusiva sfera d’influenza. La mediazione di Putin nella risoluzione della controversia tra Armenia ed Azerbaijan ha però rafforzato il fronte russo. Inoltre, la presenza dei 1960 militari inviati da Mosca come forza di interposizione consente alla Federazione di contrastare in maniera efficace l’influenza turca nella regione, ristabilendo l’equilibrio strategico, sebbene per un periodo di tempo limitato.
Le numerose ed annose questioni che rimangono aperte, come quelle relative ai prigionieri di guerra, ai confini armeni, ai corridoi che attraversano territori ostili, non consentono di ritenere chiusa la faccenda e non è affatto improbabile assistere ad una recrudescenza delle attività belliche in una regione così travagliata.
di Riccardo Allegri