Dopo l’attentato di Parigi, la capitale francese è ancora sotto i riflettori della stampa internazionale. La Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico COP21, il cui obiettivo è concludere un nuovo accordo sulle emissioni di CO2 entro venerdì 11 dicembre, è stata accolta con grandi aspettative mediatiche. Vediamo perché e quanto è importante concludere domani un accordo che sia vincolante.
Parigi, 30 novembre 2015. 150 capi di Stato, insieme alle delegazione di 195 paesi e a circa 3.000 giornalisti accreditati, sono alcuni dei convenuti nella capitale francese per celebrare la Conferenza ONU sul cambiamento climatico, accolta da una serie di proteste (con esiti talvolta imbarazzanti, come la distruzione da parte di alcuni manifestanti dei cimeli in onore delle vittime degli attacchi del 13 novembre posti in Place de la Republique), contenute dalla polizia francese e successivamente rivendicate attraverso un’operazione di hackeraggio.
Perchè COP21. Il Protocollo di Kyoto, applicativo della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, prevede un sistema di Conferenze delle Parti (COP), incaricate di vigilare sull’aderenza dei firmatari agli impegni assunti, così come di rinegoziare i termini di applicazione della Convenzione, ad esempio attraverso la conclusione di un nuovo accordo, sulla base dei risultati fin qui ottenuti (pochi) e sulle previsioni basate sulle nuove valutazioni scientifiche (allarmanti).
Nonostante le ultime COP di Copenaghen e Durban siano state tra le più fallimentari, a Parigi si attendono grandi risultati; questa volta, infatti, ogni paese ha presentato con anticipo dei piani volontari di riduzione delle emissioni, così da poter facilitare il processo negoziale e evitare il ripetersi di quanto avvenuto nel 2011, quando il Canada rinunciò al Protocollo.
Ma qual’è l’obiettivo del nuovo accordo, e perché tante aspettative da Parigi?
Cosa si discute. I leader politici mondiali negozieranno la conclusione di un trattato internazionale vincolante, che attraverso l’adozione di misure volte a frenare la produzione di CO2, permetta di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali. Questa soglia è la soglia limite indicata dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, oltre la quale il fenomeno del “global warming” diventerebbe ingestibile, insostenibile e potenzialmente catastrofico. Qui una prima bozza preliminare dell’accordo.
Aspettative. Insieme alla pessimistica opinione di quanti vedono in Parigi l’ultima occasione per prendere decisioni consistenti e abbandonare la logica “business-as-usual“, anche per via della partecipazione di Cina e Stati Uniti – grandi assenti a Kyoto e principali produttori di CO2 mondiali – ha disseminato qualche speranza. Ma cerchiamo di fare luce su alcuni punti d’ombra.
Ancor prima dell’inizio dei negoziati, il segretario di stato Jonh Kerry ha ricordato, durante un’intervista al Financial Times, che gli Stati Uniti sono disposti a scendere a compromessi per giungere a un accordo (che questa volta includerà anche la Cina), ma sarebbe impossibile accettare un accordo in cui gli obiettivi di riduzione siano giuridicamente vincolanti per gli Stati firmatari, poiché un trattato dalle siffatte caratteristiche incontrerebbe la sicura opposizione del Senato durante la procedura di ratifica parlamentare. Un’altra variabile da considerare sono poi le elezioni presidenziali del prossimo anno. Non si può escludere che, qualora il candidato vincitore appartenga all’ala repubblicana, quest’ultimo decida di rinunciare all’accordo, come fece non molto tempo fa l’amministrazione Bush al tempo di Kyoto.
Come rilevato dalla consulente GlobalScan – che ha condotto uno studio tra imprenditori, governi, ONG e università, sui risultati della COP21 – il 92% degli intervistati crede che un accordo sarà raggiunto, ma solo il 32% pensa che lo stesso sarà vincolante.
Infine, è poi da specificare che qualsiasi decisione adottata richiederà non solo un lungo periodo di applicazione e adattamento degli ordinamenti nazionali, così come una riconversione del settore di produzione e consumo energetico, ma anche che ogni misura potrà solo mitigare un processo già da più parti dichiarato irreversibile.
Siamo spacciati? No, ma le dimensioni del fenomeno discusso in queste settimane sono globali e alcune cifre sono allarmanti.
Secondo i dati pubblicati dall’Organizzazione Metereologica Mondiale, il 2014 è stato il nuovo anno record per concentrazione di gas effetto serra nell’atmosfera, il periodo 2010-2015 il più caldo registrato e quello in cui si sono verificati i maggiori eventi climatici estremi.
Questi, oltre a provocare danni irreversibili all’ambiente, stanno alla base di una serie di reazioni a catena, le cui conseguenze socio-economiche sono evidenti, soprattutto in quei paesi dove mancano piani di adattamento e le instabilità politiche sono maggiori.
Come informa un rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale quest’anno, vi è una chiara relazione tra povertà e cambiamenti climatici, essendo questi ultimi il più grande ostacolo all’eradicazione delle condizioni d’indigenza. In una prospettiva futura, l’aumento delle temperature, provocherà infatti grandi perdite al raccolto (in percentuali pari al 5% nel 2030 e al 30% nel 2080), contribuendo ad un aumento dei prezzi dei beni alimentari e all’incidenza di alcune malattie. Le stime parlano di 150 milioni di persone affette da malaria e della caduta di ulteriori 100 milioni di persone in povertà nel periodo 2015-2030.
Maggiori ripercussioni si avranno nei continenti africano e asiatico che, oltre ad essere naturalmente sfavoriti dall’innalzamento delle temperature per un fattore latitudinale, sono soggetti a un paradosso in cui, a un aumento di crescita e sviluppo economico, corrisponde l’acuirsi di fattori di vulnerabilità e la portata del riscaldamento globale.
Cina, India, Indonesia, Bangladesh, Vietnam e Giappone, in cui si situano alcune tra le città più inquinate al mondo e con i più alti tassi di mortalità per contaminazione atmosferica, sono anche tra i paesi più minacciati dall’innalzamento del livello dei mari. Un aumento delle temperature globali al di sopra dei 2°C comporterebbe infatti gravi inondazioni e danni irreversibili alle coste dell’Asia Pacifica, con spostamenti massicci delle popolazioni che li risiedono, circa mezzo miliardo di persone.
Sempre nel continente asiatico si prevede poi che i più devastanti effetti del cambiamento climatico avverrano nei paesi dell’Asia centrale, dove crescita ed espansione demografica si scontreranno con maggiore aridità, scarsità idrica e alimentare, così come con crescenti disuguaglianze nell’accesso alla fornitura di energia, provocando acuti processi di migrazione.
Per essere dunque all’altezza di queste sfide globali, l’accordo che si raggiungerà a Parigi dovrà essere dotato non solo di un contenuto chiaro e di obiettivi ambiziosi, ma dovrà essere anche provvisto di meccanismi di effettività, possibilmente senza che questi causino malumori nei paesi in via di sviluppo. Se non si arriverà ad un accordo di questo tipo, ogni soluzione sarà non solo minata alla nascita, ma anche poco lungimirante.
di Marzia Scopelliti