A cinque mesi dallo storico incontro di Singapore i negoziati dell’amministrazione Trump per la denuclearizzazione del regime nordcoreano sono ad un punto morto. Proseguono invece le iniziative sudcoreane volte alla creazione di fiducia tra le parti ed ad un progressivo disarmo della zona lungo il confine, vera polveriera dell’area.
Lunedì 24 settembre 2018 il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato un probabile nuovo faccia a faccia con Kim Jong-un, anche se al momento data e luogo rimangono da determinare. La dichiarazione è stata rilasciata al termine dell’appuntamento in sede Onu tra il presidente americano e Moon Jae-in, sua controparte sudcoreana. Il meeting tra i due alleati segue di pochi giorni la visita a Pyongyang del presidente Moon, dal 18 al 20 settembre impegnato in colloqui con le massime autorità del regime.
Al termine dei due giorni di confronto i leader delle due Coree hanno annunciato la firma della “Dichiarazione di Pyongyang”. Una serie di accordi nei quali si prevede l’implementazione di misure volte a ridurre il rischio di incidenti di frontiera, che potrebbero portare ad un rapido precipitare delle relazioni tra i due vicini. Si sostiene infatti che il vero rischio lungo il 38 parallelo risieda nell’eventualità di simili incidenti e nella loro successiva escalation, e non in un poco probabile attacco nucleare agli Stati Uniti.
Bisogna quindi considerare positivo l’impegno delle due Coree all’implementazione delle misure di confidence building contenute nella dichiarazione di Pyongyang – ratificata dal parlamento sudcoreano il 23 ottobre 2018 – quali sono per esempio il concordato divieto di accesso a naviglio militare e il divieto di esercitazioni che contemplino l’utilizzo di armamenti lungo la Northern Limit Line, un disputato confine situato nel Mar Giallo Occidentale. Un confine che dal 1999 al 2010 è stato teatro di una serie di incidenti che hanno portato anche ad attacchi con utilizzo di mortai, costati la vita a numerose persone.
Sicuramente positiva anche l’istituzione di una no-fly zone lungo il confine della zona demilitarizzata. Una scelta che però avrebbe costretto Seul a sacrificare un progetto dal valore di 157 milioni di dollari finalizzato alla creazione di una flotta di droni, il cui scopo era la sorveglianza dei confini: veicoli che con l’istituzione della no-fly zone non potranno volare.
Va positivamente intesa anche la sospensione lungo la zona demilitarizzata di esercitazioni militari, comprese quelle che prevedono l’utilizzo di artiglieria. Inoltre le due parti hanno deciso di smantellare alcuni posti di guardia e di disarmare la Joint Security Area della zona demilitarizzata, e cooperare per la rimozione dei residuati bellici presenti nei nutriti campi minati della zona. Questi sono alcuni degli impegni sottoscritti dal ministero della difesa sudcoreano Song Young-moo e dal primo vice ministro No Kwang-chol – sua controparte del nord – al termine dell’incontro tra i rispettivi capi di stato.
Pur rappresentando dei significativi passi in avanti, alcuni analisti suggeriscono che le misure adottate necessitino di un ampliamento. In particolare in quelle zone, come lungo la Nothern Limit Line, dove il rischio di incidenti ed escalation resta elevato. Si suggerisce inoltre una maggiore trasparenza e una condivisione delle informazioni su operazioni e movimenti militari, in grado di ridurre le possibilità di un attacco a sorpresa.
Insomma, il presidente sudcoreano Moon Jae-in imprime un nuovo slancio ai negoziati, che grazie alla sua iniziativa diplomatica paiono poter riprendere anche con gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda invece la questione nucleare, nella Dichiarazione di Pyongyang, si parla della possibilità di permettere a esperti internazionali la verifica della chiusura del sito di test e di lancio di Tongchang-ri. Nel documento il regime del nord afferma anche di essere disposto a chiudere il complesso nucleare di Yongbyon, ma solo nel caso in cui gli Stati Uniti si dovessero impegnare in alcune non specificate “misure reciproche”. Insomma, la dichiarazione di Pyongyang sembrerebbe offrire a Washington una base da cui ripartire nel negoziato.
Una palla colta al volo dall’amministrazione Trump: il Segretario di Stato Mike Pompeo, in una conferenza stampa – anch’essa tenutasi nella giornata lunedì 24 settembre – conferma di aspettarsi una “completa, e verificabile e irreversibile denuclearizzazione” del regime di Kim. Pompeo ha comunicato ai giornalisti di aver invitato a New York il Ministro degli Esteri nordcoreano, affinché venga concordato un piano in grado di portare alla completa rimozione delle armi atomiche del regime entro il gennaio 2021. Vale la pena notare che questa rappresenta l’unica data che viene menzionata in riferimento al processo di denuclearizzazione della penisola. Una data già indicata da Pompeo l’indomani dello storico faccia a faccia tra Kim e Trump dello scorso 12 giugno. Una frase che potrebbe stare a significare che l’amministrazione americana non ha intenzione di aspettare per sempre.
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Le parole di Pompeo, assieme agli impegni presi dalla Corea del Nord con la dichiarazione di Pyongyang, sembrerebbero aprire un discreto spazio di manovra al negoziato. Pompeo che il 7 ottobre 2018 è volato in Corea del Nord, dove ha tenuto un incontro con Kim, al termine del quale ha fatto sapere che “Proseguono i progressi sugli accordi presi al meeting di Singapore”, e che “Nonostante ci sia ancora molto lavoro da fare, possiamo adesso vedere un percorso al termine del qual potremo giungere ad una piena, irreversibile e verificabile denuclearizzazione della Corea del Nord”.
Had a good trip to #Pyongyang to meet with Chairman Kim. We continue to make progress on agreements made at Singapore Summit. Thanks for hosting me and my team @StateDept pic.twitter.com/mufyOKkDLw
— Secretary Pompeo (@SecPompeo) October 7, 2018
Kim dal canto suo ha fato sapere di aspettasi “Grandi progressi” nelle relazioni tra i due paesi, senza dubbio favorite dal “Produttivo e ottimo colloquio” occorso con il segretario di Stato statunitense.
Ma lo spazio per i negoziati potrebbe però essere inferiore a quanto non appaia in realtà. Giunge a ricordarcelo nella giornata di lunedì 24 settembre un’ affermazione del direttore della CIA Gina Haspel, che in un una dichiarazione pubblica – piuttosto inusuale per lei – afferma che “Non sarà facile convincere Kim a rinunciare all’arma atomica”. Secondo la Haspel infatti la Corea del Nord ha investito troppe risorse nel programma nucleare – considerato da Kim essenziale per la sopravvivenza del suo regime – per decidere di metterlo in discussione nell’ambito di un negoziato.
Uno scetticismo condiviso anche da alcuni ufficiali dell’amministrazione Trump, secondo i quali le mosse del leader del nord sarebbero finalizzate alla creazione di una spaccatura tra Corea del Sud e Stati Uniti. Essi guardano infatti con preoccupazione alla decisione delle due coree – inserita nella dichiarazione di Pyongang – di riconnettere le infrastrutture ferroviarie e stradali dei due paesi, oltre che l’impegno a riaprire il complesso industriale condiviso di Kaesong.
Chiave della preoccupazione sono le parole usate nella dichiarazione: “Una volta raggiunte le condizioni”.
Il timore è che Kim utilizzi questi gesti di apertura e una parziale messa in discussione del programma nucleare per ottenere una pressione sudcoreana ad un allentamento delle sanzioni economiche in vigore. Sanzioni considerate però da Washington, almeno per il momento, irrinunciabile parte della strategia di approccio al paese.
Da quanto riportato dalla Reuters la preoccupazione espressa dagli ufficiali riguarda “L’assenza di qualunque offerta del nord che rappresenti un irreversibile movimento verso la denuclearizzazione, sia essa da raggiungere entro il gennaio 2021, sia in qualunque altra data”. Anzi, secondo la fonte citata “Per ora è assente qualunque riduzione della minaccia militare che il nord pone nei confronti della repubblica di Corea e dell’intera regione”. Questo perché “Tutte le offerte del regime sono condizionate ad una riduzione della pressione esercitata da Washington. Offerte che “Presenterebbero una serie di scappatoie attraverso le quali in qualunque momento il regime potrebbe sottrarsi agli impegni presi”.
Diventa quindi fondamentale sottolineare come le concessioni del regime in materia di programma nucleare e missilistico siano in realtà da considerarsi minime. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare da queste pagine, infatti, lo smantellamento dei siti di test di lancio e dei motori non limita in alcun modo le possibilità del regime. Infatti, se l’obiettivo è limitare la proliferazione, apparirebbe più sensato concentrarsi sui siti di produzione e arricchimento dell’uranio, oppure sui complessi industriali nei quali il regime procede alla produzione dei sistemi di lancio mobili e all’assembramento delle testate. Con il discorso di inizio anno Kim ha annunciato la fine del programma sperimentale e l’avviamento a quella che lui stesso ha definito fase di “produzione di massa” dell’arsenale nucleare. Decidere quindi di smantellare un sito di test potrebbe non avere grandi impatti sull’efficacia del programma missilistico di Pyongyang.
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Inoltre riducendo anche solo temporaneamente la tensione con il vicino del sud, Kim potrebbe far percepire a Seoul la presenza della United States Force Korea – e dei suoi 23.000 uomini – come un ostacolo alla pacificazione della penisola.
Anche le dichiarazioni di Moon Jae-in, secondo il quale con la dichiarazione di Pyongyang “La decisione della Corea del Nord di rinunciare all’arma atomica è stata ufficializzata in modo tale che neppure i membri del governo nordcoreano stesso possono ritrattare” appare esagerata.
Infatti già nella dichiarazione conclusiva dei colloqui a sei del 2005 e sottoscritta per la Corea del Nord da Kim Gye Gwan – alto diplomatico del regime – si parlava di “Verificabile e pacifica denuclearizzazione della penisola coreana”. Una dichiarazione con la quale già allora il regime del nord si impegnava ad abbandonare il programma nucleare e a tornare ad aderire al trattato di non proliferazione, ma che come abbiamo dovuto constatare è stato disatteso.
Va inoltre segnalato che sul giornale nordcoreano Rodong Sinmun – il giornale ufficiale del Comitato centrale del Partito del lavoro di Corea (il partito di Kim Jong-un) – il 19 settembre, lo stesso giorno della dichiarazione di Pyongyang, appariva un articolo significativo, nel quale si sosteneva che l’impasse dei negoziati con gli Stati Uniti fosse una completa responsabilità dell’amministrazione statunitense.
Infatti stando alla versione fornita dal giornale del regime lo stallo del negoziato vissuto dopo la dichiarazione di Singapore sarebbe da imputare alla decisione americana di insistere a voler vincolare qualunque misura ad una preventiva denuclearizzazione del paese. Insomma, l’amministrazione Trump è accusata di insistere in una linea definita “Già rifiutata nel corso dei negoziati precedenti” che obbliga Pyongyang alla completa verificabile ed irreversibile denuclearizzazione della Corea del Nord, “Senza che gli Stati Uniti facciano nulla per dimostrare la propria volontà di impegnarsi in misure concrete di costruzione della fiducia”.
Secondo il partito del Leader nordcoreano gli Stati Uniti starebbero mantenendo un atteggiamento da “Gangster”, che mentre obbliga all’azione Pyongyang è refrattario a qualunque tipo di impegno.
Un pensiero rimarcato dal Ministro degli esteri nordcoreano Ri Yong-ho, che in un discorso alle Nazioni Unite tenuto domenica 29 settembre 2018 ha fatto sapere che Pyongyang non ha intenzione di cedere l’arma atomica finché gli Stati Uniti non si dimostreranno degni di fiducia. Insomma, secondo il ministro, Washington non starebbe adottando “Misure corrispondenti” a quelle da loro adottate in materia di disarmo. Anzi, secondo l’alto diplomatico, gli Stati Uniti continuano a cercare di mantenere alta la pressione sul regime mantenendo in vigore le sanzioni commerciali nei suo confronti. Sanzioni che fa sapere “Non serviranno a metterci in ginocchio”, e anzi aumentando la sfiducia del regime verso la controparte americana finiscono con il rallentare il processo di pace.
Insomma per il ministro “Senza fiducia negli Stati Uniti non ci sarà sicurezza per il regime nordcoreano, e in queste circostanze non c’è possibilità di disarmo unilaterale per Pyongyang”.
Presa di posizione reiterata in una nota emessa dalla missione permanente della Corea del Nord presso le Nazioni Unite, con la quale il regime accusa Washington di affrontare il negoziato con una doppia faccia. Un documento nel quale si scrive che pur continuando ad affermare la volontà di giungere ad un accordo sul nucleare, l’amministrazione americana dimostra di non voler allentare quella strategia di “massima pressione” mantenuta dei confronti di Pyongyang attraverso le sanzioni economiche. E che così facendo rischia di compromettere il dialogo di cooperazione inter-coreano.
Yet another sign denuclearization talks are making almost no progress. North Korea is now accusing the US of being two-faced: “Koreans dislike and hate duplicity & two-faced behavior. The US should deal with the DPRK with sincerity, instead of depending on double-dealing tactics” pic.twitter.com/gfpgfW1Qtp
— Will Ripley (@willripleyCNN) October 23, 2018
Stando alle posizioni espresse dal regime del nord, il futuro delle relazioni tra i due paesi sarebbe quindi completamente in mano statunitense, e starebbe all’amministrazione Trump “Cercare di comportarsi in maniera onesta e diligente nei confronti del dialogo appena instaurato”. Parole che in effetti, non possono che confermare le paure espresse da quegli ufficiali statunitensi già citati, che vedono nel recente attivismo diplomatico del regime, il tentativo di inserirsi nel rapporto tra Stati Uniti e Repubblica di Corea, e imbarcarsi in negoziati utili solo a guadagnare tempo e a ridurre l’isolamento internazionale di Pyongyang. Il regime del nord tiene infatti ad apparire al mondo come interlocutore legittimamente riconosciuto. E in tal senso bisogna leggere il recente invito rivolto da Kim al papa: il leader nordcoreano ha infatti chiesto a Moon Jae-in, che si sapeva avere in programma una visita in vaticano, di chiedere al papa se fosse interessato ad una visita in Korea del Nord. Una opportunità che avrebbe incontrato la disponibilità del Papa, e che vedremo se avrà un seguito. Sicuramente potranno avere un peso le parole del pontefice, che afferma di sostenere “senza riserve” gli sforzi tesi alla denuclearizzazione della penisola coreana.
Data la situazione sul campo e la necessaria costruzione di un rapporto di fiducia, sarebbe quindi probabilmente più utile cercare di implementare delle misure di confidence building incrementali, che pur se limitate siano finalizzate alla stabilizzazione del clima di apertura vissuto nel corso dell’ultimo anno. Cercare di risolvere la questione nucleare in un unico momento rappresenta di contro un approccio che se dovesse fallire potrebbe portare alla fine del negoziato, limitando così fortemente e irrimediabilmente le alternative diplomatiche, aprendo quindi la strada ai falchi delle due amministrazioni.