Questo 18 ottobre si terrà il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC): assemblea che rappresenta i vari interessi all’interno del Partito e organo nel quale si decidono i più importanti indirizzi politici da seguire. Le cose da sapere.
Il Congresso si tiene ogni cinque anni e detiene la funzione legislativa, nomina il Presidente (che è anche Segretario Generale del Partito) e conferma il Premier (che è a capo del Consiglio di Stato e che viene in prima fase nominato dal Presidente). Il Congresso nomina inoltre il Comitato Centrale che elegge a sua volta il Politburo (l’ufficio politico del Partito) all’interno del quale si decideranno i componenti del Comitato Permanente del Politburo, vertice assoluto della politica cinese di cui solitamente fanno parte il Presidente ed il Premier. Il Comitato Permanente del Politburo prende le decisioni più importanti: dalla politica estera all’economia, è sostanzialmente “la stanza dei bottoni” della Nazione ed agisce per “consenso”.
Quello che scaturirà dalla fumosa ed opaca politica cinese è quasi impossibile da prevedere, ma ci sono comunque alcune cose facilmente immaginabili, come la riconferma del Presidente Xi-Jinping e l’avvicendamento di diversi membri del Comitato Permanente del Politburo. Ma c’è anche una grande certezza: quello che accadrà al Congresso del Partito Comunista Cinese riguarderà anche noi.
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Il 2017 cinese ha mostrato quanto Pechino sia coinvolta e interessata ai temi relativi al commercio globale. Per capirlo, una sigla su tutte: OBOR. L’OBOR è la One belt one road, ovvero la Nuova Via della Seta cinese. Si parla di investimenti per centinaia di miliardi di dollari e di un collegamento infrastrutturale marittimo e terrestre destinato a coinvolgere Asia ed Europa. Un lucroso affare nel quale praticamente tutti, compresa l’Italia, vogliono entrare. Rappresenterà “il pezzo forte” della sfida alla leadership economica statunitense, grazie anche ad un’Amministrazione americana debole, contestata, e refrattaria – almeno apparentemente – ai trattati di libero scambio.
Altro emblematico tassello nella sfida cinese allo status quo americano sono poi state le parole pronunciate dal leader di un Paese nominalmente comunista (è bene ricordarlo) al Forum Economico di Davos:
“molti dei problemi di oggi non sono stati causati dalla globalizzazione […] dobbiamo dire di no al protezionismo”.
D’altro canto, la già citata Amministrazione Usa sta facilitando non poco la scalata ostile cinese al ruolo di guida globale in diversi ambiti, ed un altro eclatante esempio è quello del clima. Dopo gli annunci sul possibile ritiro degli Stati Uniti dai trattati di Parigi sul clima, sarà infatti Pechino a rappresentare (volentieri) il partner quantitativamente più importante all’interno dell’accordo.
Altre zone di attrito attivo con Washington sono poi quelle relative alle tensioni accentuatesi nella penisola nord-coreana e la vicenda delle dispute territoriali nel Mar cinese meridionale, nell’atollo delle Spratly. Sfide alle quali Pechino ha risposto anche con la riforma dell’Esercito Popolare di Liberazione attuata da Xi-Jinping e mirata ad ottenere una maggiore coordinazione tra le varie forze armate ed a rafforzare il controllo presidenziale sull’Hard Power.
Il dinamismo cinese, in questo caso finanziario, ha posto problemi anche all’Europa soprattutto in ambito di “scalate ostili” effettuate sul continente da parte di capitali cinesi che hanno interessato anche infrastrutture considerate strategiche. Acquisizioni alle quali ora è stato posto un parziale freno grazie a nuove regolamentazioni europee. Un esempio su tutti è quello del porto del Pireo in Grecia, acquistato da tempo da gruppi cinesi che hanno approfittato delle “svendite elleniche” dovute ai noti problemi economici di Atene e che, in ottica OBOR, ha un’importanza più che strategica.
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Dinamismo finanziario che si è poi palesato anche con l’acquisizione di club calcistici importanti – e dal grande potenziale economico in Asia – come l’A.C. Milan e l’F.C. Inter dei quali, indirettamente, si parlerà durante il Congresso. A fare da sfondo alla “geopolitica finanziaria” cinese resta il risaputo, datato ed interessante debito pubblico statunitense in mano al dragone: all’incirca 1.600 miliardi di dollari, che rendono i due paesi molto più interdipendenti di quanto non vogliano probabilmente essere.
La Cina, nella sua strategia di ampio respiro, guarda anche a luoghi che non ci si aspetta di trovare negli interessi del gigante asiatico. Dal sostegno al Venezuela di Maduro, che conta debiti nei confronti di Pechino per ben 63 miliardi di dollari, alla Siria, dove il business della ricostruzione, da almeno 200 miliardi di dollari, fa gola a molti, ma anche, e soprattutto, l’Africa.
Il Continente africano è infatti la nuova terra di conquista per la Cina che sta prendendo in contropiede l’approccio umanitario e di co-sviluppo occidentale: da aiuti umanitari ed investimenti (troppo spesso male organizzati e poco efficaci) ad infrastrutture e servizi Made in China “offerti” in cambio di materie prime e risorse in quello che può essere definito come una sorta di neo-colonialismo economico che strizza l’occhio anche alla strategia militare.
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In ottica interna, o comunque vicina ai confini cinesi, il 2017 non è stato un anno dei più tranquilli. Dalle annose questioni con l’economicamente florida Taiwan e le insofferenze di Hong Kong (“due Paesi due Sistemi”), alle nuove dispute territoriali in Bhutan che vedono coinvolta l’India, storico avversario cinese, e che potrebbero avere ripercussioni anche sul progetto OBOR.
Pechino, tuttavia, ripone ampia fiducia nella sua strategia difensiva e geo-militare della Terza Linea: il posizionamento interno allo spazio geografico delle industrie cinesi più strategiche, strategia di lontana origine.
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Problemi di instabilità interna potrebbero però palesarsi se il patto sociale (crescita economica “in cambio” di potere al PCC) dovesse incrinarsi, eventualità non ancora avvenuta, nonostante il PIL in flessione, ma che potrebbe prepotentemente affacciarsi sulla scena interna destabilizzando il Paese catalizzando anche altre problematiche alle quali i cinesi stanno attribuendo sempre maggiore importanza: clima, inquinamento e libertà.
In Cina, non serve ricordarlo, non esiste la libertà di parola e di pensiero: le libertà democratiche sono molto limitate, internet è sempre più censurato e controllato dal governo, i dissidenti sono perseguitati, così come alcune minoranze etniche. L’esempio recente più emblematico è quello del dissidente cinese Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace, e fatto morire di cancro senza possibilità di essere curato all’estero. Fatto accaduto nello stesso periodo in cui la Cina, per la prima volta nella storia dell’umanità, riusciva a teletrasportare informazioni dalla Terra ad un Satellite usando delle “trasmissioni quantistiche”: tra barbarie e frontiere tecnologiche.
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Barbarie che cercano di essere camuffate tramite un’abile formula di Soft Power, strumento economico-politico che, attraverso il fascino esercitato dalla propria cultura, dalle politiche e dagli ideali, permette di aumentare la propria influenza internazionale e di migliorare la propria immagine. Se sembrerà quindi di ritrovarsi in una situazione descrivibile come la Cina è vicina, forse, non sarà un caso.
di Enrico Giunta