Gli eventi succedutisi nei paesi arabi all’inizio del 2011, passati alla storia come “Primavera Araba”, hanno portato cambiamenti significativi nel Medio Oriente. Cerchiamo di capire cosa è rimasto di quelle piazze a quasi 10 anni di distanza prendendo in rapido esame il caso egiziano.
L’Egitto è il paradigma perfetto di ciò che sembrava essere la Primavera Araba, e di ciò che è stata realmente: il 23 e 24 maggio 2012 si sono svolte le prime elezioni democratiche nella storia egiziana, che hanno visto la vittoria del candidato del Partito per la libertà e la giustizia, legato alla Fratellanza Musulmana, Muhammad Morsi.
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Sfortunatamente, le speranze che una vera svolta si fosse compiuta si sono rivelate illusorie. Il rovesciamento del dittatore Hosni Mubarak – ininterrottamente al potere dal 1981 – scaturito dalle folle in protesta in varie parti del paese, il cui simbolo è poi divenuta Piazza Tahrir, fu il risultato, tra le altre cose, del ritiro dell’appoggio del governo degli Stati Uniti all’anziano presidente.
Mubarak non era più considerato affidabile rispetto agli obiettivi politici americani in Medio Oriente, che consistono storicamente nel rafforzamento di un blocco di stati arabi sunniti da contrapporre alla potenza sciita iraniana e ai suoi alleati, tra cui Siria ed Hezbollah.
Ad ogni modo, in seguito alle elezioni, i militari egiziani inizialmente non mostrarono alcuna opposizione all’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani. Ma il 3 luglio 2013, una coalizione guidata dal capo dell’esercito egiziano, il Generale Abdel Fattah El Sisi, approfittando del malessere della popolazione e delle prime avvisaglie di una virata in senso religioso dello stato egiziano, ha compiuto un colpo di stato per deporre il presidente eletto Muahmmad Morsi.
Il nuovo governo ha subito sospeso la Costituzione, ed ha dimostrato di non essere più rispettosa dei diritti umani e della libertà di parola di quello del suo predecessore. Tutto ciò mentre il governo americano da una parte appoggiava, sorprendendo gran parte degli analisti, la coalizione guidata da Morsi di cui facevano parte di Fratelli Musulmani, e dall’altra sosteneva le nuove proteste di piazza. Come scriveva Al Jazeera il 10 luglio 2013:
“I documenti ottenuti dall’Investigative Reporting Program presso UC Berkeley mostrano che gli Stati Uniti hanno incanalato finanziamenti attraverso un programma del Dipartimento di Stato per promuovere la democrazia nella regione del Medio Oriente. Questo programma ha sostenuto con forza attivisti e politici che appoggiarono le proteste in Egitto, dopo che il presidente autocratico Hosni Mubarak è stato rovesciato in seguito a una rivolta popolare nel febbraio 2011. Il programma di assistenza alla democrazia di Washington per il Medio Oriente è filtrato attraverso una piramide di agenzie all’interno del Dipartimento di Stato […] A loro volta, questi gruppi reindirizzano il denaro verso altre organizzazioni come l’International Republican Institute, il National Democratic Institute (NDI) e Freedom House, tra gli altri. I documenti federali mostrano che questi gruppi hanno inviato fondi a determinate organizzazioni egiziane, gestite principalmente da membri di partiti politici anti-Morsi e attivisti di ONG.”
Una sostanziale conferma del fallimento, salvo forse il caso tunisino, della stagione delle così dette “Primavere Arabe”, giunge da un libro scritto dal giurista americano Noah Feldman, intitolato “The Arab Winter”, pubblicato nel maggio 2020.
Nel testo vengono analizzati gli eventi che hanno visto, per la prima volta, i popoli di lingua araba intraprendere un’azione politica collettiva nel tentativo di raggiungere l’autodeterminazione, eventi che hanno avuto come esiti finali lo scoppio di sanguinose guerre e nessun avanzamento dei diritti civili.
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Alla luce della minaccia costituita dall’ISIS, in molti – tra cui l’ex presidente USA Barack Obama – pensarono che la Fratellanza Musulmana sarebbe stata un prezioso alleato per l’Occidente, avendo avuto la legittimità – acquisita dal voto popolare – e la credibilità agli occhi delle masse islamiche di tutto il mondo, per diffondere il messaggio che è possibile essere uno Stato islamico e al tempo stesso democratico, e che uno Stato islamico può sia difendere la sua sovranità e i suoi diritti, sia combattere la minaccia jihadista.
Fare una previsione sul futuro del Medio Oriente e dell’Egitto è, al momento, difficile. Ma certamente, la rimozione del governo di Morsi ha messo a rischio la stabilità dell’intera area e, in una certa misura, il rapporto tra mondo occidentale e islamico.
di David Cardillo