In questo piccolo paese dei Grandi Laghi succedono cose molto curiose, alcune delle quali sembrano ricordare la peggiore catastrofe che la regione abbia mai conosciuto, ovvero il genocidio compiuto in Ruanda dai nazionalisti etnici Hutu a danno dell’etnia Tutsi nel 1994.
Il Burundi dallo scorso aprile sta attraverso una grave crisi politica, dopo che il suo Presidente, Pierre Nkurunziza, ha annunciato la volontà di candidarsi per il terzo mandato consecutivo, nonostante la Costituzione (in base anche agli accordi di Arusha nel 2000) prevedesse un solo rinnovo. Dopo un fallito tentativo di golpe del 13 maggio 2015 organizzato dall’opposizione e brutalmente represso dalle autorità, Nkurunziza viene rieletto a luglio. Tutto avviene in un clima di grande tensione, e le opposizioni hanno boicottato le urne. Inoltre, l’ONU non ha riconosciuto la validità dello scrutinio a causa dell’assenza di osservatori internazionali ai seggi. In risposta, molte fazioni ribelli hanno dato vita ad una serie scontri violenti causando centinaia di morti nella capitale. Un clima di tensione che ha radicalmente trasformato la vita quotidiana della capitale, Bujumbura, divisa tra zone ribelli e zone lealiste.
Il governo del Burundi accusa il vicino Ruanda di ingerenza; il 2015 si è concluso poi nel peggiore dei modi, con scontri violenti tra gruppi di ribelli Tutsi e le forze militari governative Hutu. Ormai lontani dalle manifestazioni pacifiche dello scorso aprile, con gli slogan “anti terzo mandato”, nell’arco di un weekend, la capitale si è risvegliata con le strade piene di cadaveri di oppositori del regime giustiziati con colpi di fucile alla testa. Verranno ritrovate fosse comuni piene di corpi dei ribelli Tutsi. Dopo un inizio 2016 tutto sommato tranquillo, oggi le tensioni del piccolo Stato africano continuano a tormentare il paese. Bujumbura è afflitta da una recrudescenza della violenza mentre governo ed opposizione si rimbalzano le accuse.
Le violenze in corso hanno ormai fatto più di 400 morti e spinto oltre 240.000 persone a lasciare il paese. Amnesty International denuncia la presenza di almeno sei fosse comuni intorno alla capitale. Il Governo centrale ha smentito queste accusse e respinto ogni tentativo di avviare un’inchiesta indipendente.
Il Burundi è sprofondato da oltre di 10 mesi in una crisi profonda nata dalla volontà di un capo di Stato di rimanere al potere per un terzo mandato incostituzionale. Un male questo che affligge la maggioranza degli Stati africani. Questo stato di urgenza ha spinto nel febbraio 2016 una delegazione dell’Unione Africana e lo stesso Ban Ki-moon a recarsi a Bujumbura per tentare quanto meno di riportare alla ragione l’attuale Presidente, aprire un dialogo con le forze dell’opposizione e liberare gli oltre 2000 prigionieri politici.
Nkurunziza rifiuta tutt’oggi ogni forma di dialogo con le opposizioni in esilio, e le accusa, anzi, di essere i mandanti delle violenze all’interno del Paese che sembra rivivere il clima in cui si svilupparono le dinamiche che precedettero quel infausto 6 Aprile di ventidue anni fà. Vi sono tutti i presupposti per la degenerazione della situazione, visto il rancore ancora fresco per quelle centinaia di migliaia di morti. L’augurio è che la comunità internazionale si muova in tempo affinché si eviti un’altra escalation di violenza come quella del 1994.
Un ripasso: Hutu e Tutsi
Hutu e Tutsi sono i due gruppi etnici che popolano prevalentemente il Ruanda e il Burundi. Gli Hutu rappresentano circa l’80% della popolazione mentre il restante 20% è di etnia Tutsi, anche se è possibile trovare nelle stesse aree la minoranza etnica dei Pigmei. Appare ragionevole supporre che le principali responsabilità di quello che si tradurrà nell’odio etnico tra questi due popoli siano imputabili al colonialismo europeo, (oltre alla violenza dell’essere umano) visto che prima dell’arrivo del “Colon” questi gruppi avevano sempre condiviso la stessa lingua, lo stesso territorio, gli stessi valori religiosi oltre a diverse tradizioni. I Tutsi erano allevatori guerrieri mentre gli Hutu prevalentemente coltivatori.
Per capire l’origine di questo rancore bisogna risalire alla fine della Prima guerra mondiale. Di fatto, dopo il trattato di Versailles le redini del Paese passarono dalla Germania al Belgio, fino all’indipendenza nel 1962. I problemi iniziarono quando si cominciò (per meglio controllare una delle aree più ricche del mondo) a rimarcare quella che era semplicemente una differenza socio-economica così da trasformarla in una differenza antropologica tra le due etnie che nei secoli avevano dato vita a un sistema politico fondato sulla complementarietà. Prima che arrivassero gli Europei i Tutsi erano il gruppo politicamente preminente; mentre dall’aristocrazia Hutu provenivano i sacerdoti. Quando i colonizzatori occuparono la regione, abolirono sia la monarchia Tutsi che il ruolo rituale degli Hutu per rivolgersi ai Tutsi identificati come gli interlocutori politici (i Re del sistema sovvertito). In questo modo i Tutsi (che nel frattempo si convertirono al cattolicesimo) ottennero incarichi e privilegi all’interno dell’amministrazione coloniale, mentre gli Hutu restavano ai margini della società, contadini sfruttati dai dominatori Tutsi. Nella struttura dello stato coloniale, ma anche post coloniale, questi due gruppi vennero stratificandosi su basi “etniche” con i Tutsi posti a un livello superiore rispetto gli Hutu. Questa situazione perdurò fino a quando, raggiunta l’indipendenza nel 1962, venne instaurata una Repubblica controllata per motivi numerici dagli Hutu (con l’assenso del Belgio) che per prima cosa spodetarono i Tutsi dal potere. Da quel momento in poi iniziò una violenza intermittente che culminò con quello che venne definito da l’allora segretario delle Nazioni Unite Boutros Ghalida il genocidio del Ruanda e che trascinò la comunità internazionale in due interventi nel 1994 e nel 1996.
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Mohamed-Ali Anouar