Sabato più di 100 persone sono morte in un attentato compiuto durante una manifestazione pacifista ad Ankara, capitale della Turchia. La domanda da porsi per cercare di capire chi è il responsabile del più grave attacco terroristico nella storia del paese è: a quale degli attori in gioco conviene questo orrore? Ancora una volta (dopo Suruc) hanno perso la vita coloro che invocavano la pace. In Turchia è guerra di tutti contro tutti.
Alle ore 10.04 del mattino di sabato 10 Ottobre sono deflagrate tra la gente due bombe a pochi passi dalla stazione ferroviaria di Ankara, nel centro della Capitale turca, dove si erano ritrovate migliaia di persone decise a mettersi in marcia per richiedere la riapertura dei negoziati di pace tra il governo e il Pkk curdo.
I numeri sono in continuo aggiornamento, ma secondo fonti governative avrebbero perso la vita 95 persone, mentre altre 48 verserebbero in condizioni disperate. Stime più recenti parlano di 128 morti. Il bilancio delle vittime secondo quanto dichiarato dal Partito Democratico del Popolo è destinato a crescere. Le esplosioni sarebbero state provocate da due kamikaze, come riferito da testimoni oculari e confermato dalle autorità che avrebbero identificato uno dei due attentatori; tuttavia nessuna sigla terroristica ha rivendicato l’attacco. A scendere in piazza Sabato, erano stati diversi gruppi di sinistra, sindacati e organizzazioni della società civile, oltre all’Hdp (il partito curdo moderato guidato da Selahattin Demirtas, entrato in parlamento alle elezioni generali di Giugno) e ai suoi sostenitori. In piazza c’erano però anche turchi, desiderosi quanto i curdi, di fermare l’escalation di violenza che negli ultimi mesi ha insanguinato il paese, portandolo sull’orlo di una guerra civile.
Grazie all’ottimo risultato elettorale ottenuto a giugno dall’Hdp, (che ha superato l’alta soglia di sbarramento posta al 10% proprio per evitare che partiti come quello curdo potessero entrare in Parlamento), l’Akp di Erdogan non è riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta e non è riuscito a formare un governo di coalizione che tuttavia, una volta scaduti i termini previsti per legge, si è reso obbligatorio (governo di unità nazionale) per riportare il paese alle urne nel mese di novembre. È in questo contesto che bisogna inserire i fatti degli ultimi giorni.
La peculiare “democrazia” turca è messa a dura prova, e sarà necessario riflettere al fine di trovare un accordo sociale capace di durare nel tempo. La barbarie di Ankara ricorda tristemente che la posta in gioco è altissima. A chi sarà affidata la facoltà di decidere chi è amico e chi è nemico della Turchia?
Questo potere oggi spetta a un esecutivo provvisorio guidato dall’Akp (il partito del Presidente Erdogan) che ha deciso di fare la guerra al Pkk, pur avendola dichiarata all’Isis, a sua volta in guerra con la Turchia. Se da un lato infatti il paese è entrato a far parte dell’operazione Inehrent Resolve, con l’obiettivo di opporsi al Daesh, dall’altro non ha esitato a bombardare anche e soprattutto i terroristi del Pkk, ovvero coloro che sino a quel momento avevano imbracciato le armi per combattere l’avanzata dello “Stato Islamico” nei territori curdi. Vere e proprie operazioni militari ordinate da Ankara e condotte nel sud-est del paese che hanno inevitabilmente riacceso la fiamma dell’irridentismo curdo che a sua volta è ricorso alla violenza.
Quello che secondo diversi analisti e buona parte dell’opinione pubblica turca è stato un tentativo spregiudicato di trovare un casus belli per isolare la forza politica curda dell’Hdp in vista delle prossime elezioni di novembre, risulta verosimile se si tiene a mente che Erdogan, proprio a causa del successo del partito filo-curdo, ha visto allontanarsi la possibilità di legittimare lo strapotere dell’esecutivo (sotto il controllo politico del suo partito) tramite una modifica costituzionale che renderebbe la Turchia una Repubblica Presidenziale.
Erdogan ha deciso che la minaccia più grave alla stabilità del paese dovesse essere quella costituita dal Pkk, confidando di riuscire a far leva sul sentimento anti-curdo condiviso da buona parte dei nazionalisti, che quindi si sarebbero convinti a votare per l’Akp, impegnato a vendicare l’uccisione di vittime innocenti appartenenti all’esercito e alla polizia turca (obiettivi designati degli attacchi del Pkk).
I diversi attentati, oltre a incrementare le azioni militari dello Stato ai danni dei curdi, hanno scatenato un biasimo collettivo sfociato in violenza contro il Partito Democratico dei Popoli guidato da Selahattin Demirtas che a sua volta si è dimostrato reticente nel condannare le azioni di guerra del Pkk. Questo il clima alla vigilia del voto del 1 novembre, il cui esito ora è più che mai incerto. Il governo ha sospeso la campagna elettorale, il Presidente Erdogan ha condannato il terrorismo in tutte le sue forme e il Primo Ministro Ahmet Davutoglu ha proclamato 3 giorni di lutto nazionale prima di puntare il dito sia contro i miliziani dell’Isis che contro i guerriglieri curdi. Davutoglu ha rivelato che nei giorni scorsi sono stati arrestati alcuni attentatori suicidi mentre entravano in Turchia dal confine con l’Iraq (dove si trovano combattenti curdi e non jihadisti affiliati all’autoproclamatosi califfato). Ma l’ipotesi che i curdi abbiano preso di mira altri curdi, e che siano i responsabili dell’attentato di sabato è inverosimile, e andrebbe pertanto esclusa dato che il Pkk a poche ore dalla strage ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale sul territorio turco (da interrompere solo in caso di attacco) necessario per garantire il regolare svolgimento delle elezioni politiche. “La tregua annunciata dal Pkk non significa nulla per noi; le operazioni proseguiranno senza sosta” è stata la dichiarazione rilasciata da un ufficiale governativo a Reuters dopo che nella giornata di domenica, a dispetto dello stop alle ostilità promesso dal Partito dei Lavoratori curdi, sono proseguite le operazioni militari del governo turco nel nord dell’Iraq e nel sud-est della Turchia (nella città di Diyarbakir vige il coprifuoco).
Erdogan spaventato dall’eventualità che l’Akp non riesca a riottenere la maggioranza assoluta in Parlamento ha scelto di riaprire una ferita che negli anni è costata la vita a 40.000 persone dal 1984, anno in cui è iniziata l’insorgenza separatista. Ha preferito sospendere il processo di pace inaugurato nel 2012 con il leader storico del movimento eversivo piuttosto che curarsi della minaccia costituita dall’Isis all’interno e all’esterno del paese. Secondo Daniel Nisman a capo di un gruppo di ricercatori esperti dell’area mediorientale, l’attentato ad Ankara potrebbe essere ricondotto all’Isis, che spesso attacca le minoranze (come quella sciita in Arabia) così da alimentare le tensioni etniche e lo spirito settario. Così è accaduto il 20 luglio a Suruc in Turchia, dove la morte di 37 giovani attivisti impegnati a manifestare solidarietà alla popolazione curda di Kobane, ha innescato gli avvenimenti descritti sino ad ora.
Gli uomini affiliati al sedicente califfato combattono apertamente sia i guerriglieri curdi nel nord dell’Iraq e in Siria, sia lo Stato turco colpevole tra le altre cose di aver concesso agli Stati Uniti l’utilizzo delle basi aeree nel paese da dove partono gli aerei della coalizione internazionale che bombarda le postazioni del Daesh. Sin dall’inizio del conflitto in Siria la Turchia di Erdogan ha supportato a vario titolo diverse fazioni ribelli islamiste, che potessero opporsi ad Assad, prima di scegliere di non ostacolare le operazioni dell’Isis, nemico anch’esso, sia di Assad che dei curdi. Nell’ultimo periodo tuttavia le maglie si sarebbero strette e questo avrebbe reso sia i curdi che lo stato turco un target legittimo, tale da giustificare una strage d’innocenti come quella avvenuta ad Ankara.
Un massacro del genere se davvero può convenire a qualcuno, conviene all’Isis e probabilmente anche agli oppositori di Erdogan che dall’intera vicenda rischia di uscire ulteriormente indebolito. Nel week end migliaia di persone si sono ritrovate a Istanbul e ad Ankara, per onorare la memoria delle vittime e per denunciare il “capo assassino” e il governo negligente, colpevole di non essere riuscito a prevenire la tragedia. L’ipotesi di un “deep state” dietro all’attentato rimane remota; così come è poco probabile che nell’attacco siano implicate organizzazioni di estrema destra come quella dei Lupi Grigi (tristemente operativa in Turchia negli anni passati) inseriti nella lista dei sospettati dal Guardian.
La speranza è che nel caso in cui il risultato delle elezioni del 1 novembre dovesse essere lo stesso di giugno, i tre partiti all’opposizione (Chp, Mhp, Hdp) abbiano il coraggio di formare un governo di minoranza che anteponga gli interessi della comunità politica all’ostilità nei confronti di Erdogan – che di fatto sarebbe sconfitto. Se ci fossero riusciti in prima battuta, chissà, forse l’orrore di questi mesi si sarebbe potuto evitare.
Nel bellum omnium contra omnes – la guerra di tutti contro tutti – descritta da Thomas Hobbes, non c’è alcun bisogno di radicalizzare il conflitto dato che lo stesso è aperto, diffuso e naturale. L’umanità è ossessionata dalla paura di morire per mano del prossimo, ed è per questo che anche nello stato di natura esiste
“un precetto o regola generale scoperta dalla ragione, a causa della quale è vietato all’uomo di far ciò che può distruggere la sua vita, o privarlo dei mezzi per conservarla.” (Hobbes, Leviatano, 1651, XIV).
Eliza Ungaro