La crisi, innescata dalle dimissioni del premier Hariri, ha aggravato tensioni regionali preesistenti e sollevato degli interrogativi. Perché ora? Qual è la strategia saudita e la posizione di Israele?
Sono state le dimissioni del premier libanese sunnita Saad Hariri, annunciate a sorpresa sabato 2 novembre in un discorso televisivo dall’Arabia Saudita, ad innescare una crisi che rischia di gettare l’area nel caos.
Nel discorso – di cui segue il video – Hariri ha motivato le proprie dimissioni leggendo attentamente un foglio sotto gli occhi del principe ereditario Mohamed bin Salman (MbS), affermando che “le circostanze attuali sono molto simili a quelle che portarono all’assassinio di Rafik Hariri” e di aver “percepito ciò che si sta tramando contro la mia vita” (il padre fu ucciso in un attentato attribuito all’Iran o a Hezbollah e al regime siriano). Hariri ha accusato gli Hezbollah di guidare il Paese con la forza delle armi e l’Iran di ingerenza negli affari interni libanesi e di altri Paesi arabi (Siria, Iraq e Yemen in particolare). Hezbollah fa parte del governo di unità nazionale libanese, fino a settimana scorsa guidato dallo stesso Hariri.
L’Arabia Saudita ha reagito dichiarando che il governo libanese sarà “trattato come un governo che ha dichiarato guerra all’Arabia Saudita” a causa di ciò che ha descritto come un’aggressione da parte di Hezbollah (e quindi dell’Iran), e ordinando ai cittadini sauditi in Libano di rientrare “immediatamente”. Provvedimento, quest’ultimo, preso anche da Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Kuwait.
Perché questa escalation?
Il giorno prima di volare in Arabia Saudita, Hariri aveva incontrato a Beirut l’Inviato agli Affari Internazionali iraniano, Ali Akbar Velayati. Secondo il sito Amadnews, Velayati lo avrebbe minacciato esortandolo a scegliere tra il perseguire una politica filo-americana contro Hezbollah e Iran oppure fare la fine del padre e gettare il Libano nel caos. La versione dell’ambasciatore iraniano a Beirut smentisce le minacce, affermando che Hariri avrebbe chiesto all’Iran di cessare il sostegno ai ribelli Houti in Yemen e che Velayati avrebbe rifiutato. Fatto sta che dopo l’incontro Hariri si è precipitato in Arabia Saudita – su invito del principe MbS – e si è dimesso.
Cosa c’è dietro?
Secondo politici e media libanesi, Hariri non si sarebbe dimesso spontaneamente e sarebbe trattenuto contro la sua volontà. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha infatti accusato l’Arabia Saudita di aver dichiarato guerra al Libano, trattenendo ai domiciliari Hariri, che in Arabia Saudita ha diverse proprietà e residenze. Circostanza smentita dal Regno saudita e dallo stesso Hariri, che dopo otto giorni di silenzio ha parlato pubblicamente ribadendo le ragioni delle sue dimissioni e dicendo di essere “libero di muoversi”, ma che comunque per ora non andrà da nessuna parte.
Fonti vicine ad Hariri sostengono che l’Arabia Saudita abbia voluto le sue dimissioni per via della sua riluttanza ad affrontare Hezbollah. Tant’è che quando Hariri è atterrato a Riyad, non ha ricevuto alcuna accoglienza formale ed, anzi, gli è stato confiscato il cellulare. Qualche dubbio sulla sua “libertà di muoversi” arriva anche dalla mancata presenza nel week-end al Forum Mondiale della Gioventù tenuto a Sharm al-Sheikh, di cui aveva ricevuto invito ufficiale.
Fonti libanesi affermano che Riyad spera di sostituire Saad Hariri con il fratello maggiore Bahaa e che avrebbe chiesto a membri della famiglia Hariri di assicurargli fedeltà, cosa che loro avrebbero rifiutato. Si tratta tuttavia di speculazioni non confermate.
Per comprendere la crisi occorre inquadrarla in un contesto più ampio. In Libano si giocano gli interessi per l’egemonia regionale di Iran, potenza sciita, e Arabia Saudita, potenza sunnita, come si giocano in Siria e Yemen, e la fragilità del Paese dei Cedri rende più facile lo scontro: il Libano è un Paese debole, indebitato, che si sta ancora riprendendo dalla guerra civile degli anni 1975-1990 e che ospita un milione di rifugiati siriani, a fronte di una popolazione di 4 milioni. Ciò pesa sulla fragilità politica del Paese, che è di fatto in mano agli Hezbollah.
Ma perché ora?
Non solo perché ormai è chiaro il fallimento della politica estera saudita in Siria e “l’impantanamento” di Riyad nel conflitto in Yemen, ma anche e soprattutto per la strategia che l’Arabia Saudita ha attuato negli ultimi anni per contenere l’espansione iraniana, e con le recenti svolte dovute, si dice, alla presa in carico del principe MbS della politica estera del paese. Svolte aggressive iniziate con l’isolamento del Qatar; una voluta e cercata crisi nel Golfo che, come avevamo spiegato qui, nasconde un programma di contenimento dell’influenza iraniana nella Penisola Araba, dato che Doha è considerata troppo vicina a Teheran.
Inoltre, proprio nei giorni precedenti alle dimissioni di Hariri, la CIA aveva divulgato dei documenti sequestrati dal nascondiglio di Osama bin Laden nel 2011, che indicherebbero che al-Qaida ha ricevuto negli anni il sostegno dell’Iran, in termini di armi, denaro, agevolazioni di viaggio, per colpire un nemico comune, gli Stati Uniti, e il suo alleato saudita. Il tempismo potrebbe essere un tentativo di screditamento dell’Iran, in un momento in cui Donald Trump cerca di stracciare l’accordo sul nucleare iraniano.
Segnali di tensione sono giunti anche dal Bahrain: il Ministro degli interni ha dichiarato che l’esplosione che venerdì ha causato un incendio alla sua principale conduttura petrolifera è stata causata da un sabotaggio “terroristico” legato all’Iran.
Sempre nei giorni precedenti, il 4 novembre, un missile balistico era stato lanciato dai ribelli Houti in Yemen verso Riyad, prima di venir intercettato ed abbattuto vicino all’aeroporto senza causare vittime. La monarchia saudita ha subito accusato l’Iran per questo “atto di aggressione” e in risposta ha imposto un temporaneo blocco aereo, terrestre e marittimo allo Yemen per bloccare il flusso di armi ai ribelli Houti dall’Iran.
La “purga” interna all’Arabia Saudita.
Il tempismo è interessante anche alla luce di quanto sta avvenendo entro i confini della monarchia saudita: il principe bin Salman sta conducendo significative politiche di ristrutturazione interna – chiamiamola così – non solo attraverso provvedimenti per modernizzare la società e stimolare l’economia, ma anche attraverso l’eliminazione dei propri oppositori interni, anche attraverso una campagna di lotta alla corruzione, la cui scure ha colpito anche ministri, membri della casa reale ed eminenti uomini d’affari, con accuse che vanno dal riciclaggio all’estorsione.
Sarebbero più di 500 le persone arrestate e circa un migliaio quelle interrogate: molte sarebbero state torturate, mentre altre – i familiari reali – sarebbero ai domiciliari all’Hotel Ritz-Carlton di Riyad.
A ciò si aggiungono delle morti di alto profilo avvenute nei giorni precedenti: il 5 novembre un elicottero con a bordo alcuni funzionari sauditi si è schiantato vicino Abha, sul confine yemenita, causando la morte di Mansour bin Muqrin, membro della famiglia reale e figlio dell’ex erede Muqrin bin Abd -Al Aziz. Il 6 novembre un altro membro della famiglia Saud, Abdul Aziz Bin Fahd, businessman in affari proprio con Hariri, è stato ucciso in uno scontro a fuoco mentre le forze di sicurezza tentavano di arrestarlo (le autorità saudite hanno smentito il decesso ma la sua sorte non è ancora chiara).
Il timore, diffuso tra i sauditi, è che lo scopo del principe sia eliminare tutti i rivali, sia all’interno che all’esterno della famiglia reale, prima di succedere al padre, ormai ottantunenne. Il principe MbS starebbe dunque tentando di accentrare più potere possibile nelle proprie mani prima di salire al trono, anche per fronteggiare l’Iran, e la crisi in Libano potrebbe avere a che fare con questi eventi.
E Israele?
Preoccupata dell’influenza di Hezbollah e Iran nella vicina Siria, Israele ha più volte bombardato convogli e depositi di armi destinati a Hezbollah in territorio siriano. Ad agosto, annunciando una “nuova strategia”, il ministro dell’educazione israeliano Naftali Bennett ha dichiarato di ritenere tutto il Libano responsabile di qualsiasi attacco contro Israele effettuato da Hezbollah, senza fare dunque alcuna distinzione tra il “Partito di Dio” e il governo libanese. “Ciò significa che qualsiasi attacco di Hezbollah provocherà distruzione in tutto il Libano e nelle sue istituzioni”, aveva detto. Secondo alcuni analisti, Israele potrebbe dunque formare un’alleanza con i Paesi del Golfo in un eventuale conflitto aperto. Anzi, parlando alla Chatham House di Londra il venerdì prima delle dimissioni di Hariri, Netanyahu aveva dichiarato che Israele stava lavorando “molto duramente” per stabilire un’alleanza con “i moderni Stati sunniti” per contrastare l’Iran.
Un conflitto imminente?
Secondo alcuni analisti, l’Arabia Saudita starebbe esercitando pressione psicologica più che pianificando un vero intervento militare, che risulterebbe difficile, non solo perché le sue risorse militari sono concentrate in Yemen, ma anche perché dopo la vittoria del fronte governativo siriano contro ISIS sul confine iracheno, l’Iran ha coronato il suo “corridoio sciita” che lo collega direttamente al Libano e che gli permetterebbe di muovere mezzi e uomini in tempi rapidi.
Tuttavia, in Israele si parla sempre più di un possibile confronto militare. Non passa inosservata l’esercitazione aerea in corso fino al 16 novembre nella base aerea di Uvda, nel deserto israeliano del Negev: ribattezzata Blue Flag 2017, vede coinvolte le aviazioni di Stati Uniti, Italia, Francia, Germania, Grecia, Polonia e India. Volta a simulare una guerra contro Hezbollah o Iran, è la più grande esercitazione aerea mai organizzata da Israele e la novità è che è stata annunciata pubblicamente, con tanto di accrediti alla stampa. Un chiaro segnale ai Paesi della regione.
Non è chiaro come potranno evolvere gli eventi. UE e USA hanno espresso sostegno alla stabilità e alla sovranità delle istituzioni libanesi, concetto chiarito anche dal presidente francese Macron in visita in Arabia Saudita l’11 novembre.
Il Libano ha però di nuovo un vuoto di potere che potrebbe rigettarlo in una prolungata crisi politica. Ciò potrebbe giovare all’Arabia Saudita, perché la legge elettorale voluta dal governo Hariri avrebbe potuto portare meno voti al suo partito alle elezioni parlamentari del maggio 2018. Il che significa che l’Arabia Saudita ha ora margine di manovra per rassestare il suo peso nell’area.
di Samantha Falciatori