di Federica Allasia
Numerosi studi hanno contribuito a far emergere le preoccupanti conseguenze che la mancata attuazione di politiche ambientali produrrà sui mercati globali. Dinnanzi al rischio di un tracollo economico, anche i più scettici sembrano aver trovato una ragione per agire.
Chiunque abbia studiato, seppur sommariamente, i rudimenti della fisica, avrà sentito parlare della “teoria del piano inclinato”: qualunque corpo posto su un piano inclinato di un certo angolo α rispetto all’orizzontale, per effetto della forza di gravità, tenderà a scendere lungo la superficie con un’accelerazione tanto maggiore quanto più lo è l’angolo di inclinazione del piano. Soltanto la forza di attrito può opporsi alla discesa, limitando gli effetti che l’accelerazione crescente del corpo in caduta produce.
Ciò che accade sul piano inclinato può essere molto più banalmente osservato nella vita di tutti i giorni, qualsiasi ambito si decida di prendere in esame: ogni problema, se non affrontato, tenderà inevitabilmente ad incedere, spesso estendendo la propria influenza a settori differenti rispetto a quello nel quale ha avuto origine, e rendendo sempre più difficile trovare una soluzione in grado di risolvere una volta per tutte la questione. Ad ogni difficoltà, però, è possibile opporre una forza uguale e contraria capace di contenerne gli effetti prima che sia troppo tardi.
Negli ultimi anni è emersa sempre più distintamente una criticità da molto tempo sotto gli occhi di tutti, ma alla quale non era finora stata data adeguata importanza: i cambiamenti climatici, catalizzati anche dall’agire umano, sono causa di danni finanziari maggiori rispetto ai benefici economici derivanti dallo sfruttamento delle risorse ambientali.
Un recente studio condotto dagli scienziati dell’Università di Oxford e ripreso dal The Guardian ha infatti contribuito a far emergere un dato capace di sensibilizzare anche le coscienze degli imprenditori meno “green”: fenomeni quali l’aumento delle temperature, lo scioglimento dei ghiacci, la variazione dei regimi delle precipitazioni – solo per citarne alcuni – potrebbero provocare, nel peggiore degli scenari, perdite finanziarie pari a 24 trillioni di dollari, una cifra – il 17% degli asset economici globali – capace di portare al tracollo l’economia mondiale, ma che potrebbe essere sensibilmente ridotta (si parlerebbe di un risparmio pari a circa 315 miliardi di dollari) adottando misure volte a contenere l’aumento delle emissioni di gas serra entro i 2°C, secondo quanto previsto dall’accordo sul clima firmato a dicembre a Parigi e sottoscritto dai principali leader del pianeta.
Secondo Simon Dietz, docente della London School of Economics e promotore della ricerca, la riduzione delle emissioni non sarebbe sufficiente a ridurre i rischi derivanti dai cambiamenti climatici; sarebbero infatti necessari anche investimenti finalizzati a diminuire sensibilmente l’utilizzo del carbone, il combustibile fossile di gran lunga più inquinante (e più diffuso).
Anche i danni alla salute dall’inquinamento – danni spesso trascurati a fronte di vantaggi economici considerati prioritari – comporterebbero nel lungo periodo perdite produttive tali da allarmare gli industriali più cinici, facendo acquisir loro la consapevolezza circa la reale potenzialità distruttiva dei cambiamenti climatici.
Fortunatamente, però, non tutto è perduto: molti investitori istituzionali, consci della necessità di intervenire attraverso una gestione dei risparmi ed un’allocazione del capitale ecologicamente orientata, hanno mosso i primi passi verso il cambiamento, avviando una reazione a catena in grado di contrastare il problema, una forza di attrito globale che vede coinvolta anche l’Europa.
Secondo l’indagine promossa nel 2015 dal Fondo Cometa e condotta da Vigeo Italia, agenzia di rating sociale ed ambientale, le principali banche a livello globale sarebbero infatti disponibili a confrontarsi sul tema dei cambiamenti climatici, avviando una collaborazione con le imprese al fine di promuovere investimenti sostenibili e finanziamenti volti a stimolare l’adozione di comportamenti ecologicamente virtuosi.
Si tratta del cosiddetto Green Banking, un modello di economia sostenibile promosso negli anni novanta dall’UNEP, che ha riscosso un notevole successo anche a livello comunitario ed è attualmente in crescita: il governo britannico, ad esempio, ha annunciato ad inizio marzo la privatizzazione della Green Investment Bank, istituita nel 2012, al fine di acquisire nuovo capitale da investire in progetti ambientali.
Il futuro del nostro pianeta risulta quindi indissolubilmente legato al mondo della finanza: è tempo di agire, e sono sempre più numerosi i motivi per farlo.