Il 5 novembre, il cedimento di due dighe ha causato molti morti e l’inondazione con fango tossico del Rio Doce, in Brasile. Il fango è arrivato fino all’Atlantico, ha distrutto l’intero ecosistema del fiume e lasciato senza acqua potabile migliaia di persone. Un disastro che modificherà l’ambiente del luogo per decenni.
E’ passato poco più di un mese da quello che è stato definito “il più grande disastro ambientale nella storia del Brasile”. Lo scorso 5 novembre, una quantità di fango pari a 62 milioni di metri cubi si è riversata nelle acque del fiume Doce, portando con sé, a detta dei biologi, effetti irreparabili. Il crollo inaspettato di due dighe a Mariana, nello Stato federale di Minas Gerais, ha causato la morte di almeno 16 persone, 10 dispersi e circa 600 sfollati. Il fango, mescolatosi all’acqua, ha creato un paesaggio di terrore potenzialmente capace di riempire 25 mila piscine olimpioniche.
Ma il colore del fiume non è l’unica cosa che ha fatto preoccupare l’intero Stato. Il problema sono le sostanze che contiene: rifiuti tossici, scarti dell’attività mineraria della joint-venture Samarco, società fondata nel 1977, appartenente al colosso brasiliano VALE S.A. e alla anglo-australiana BHP. La stessa Samarco avrebbe registrato qualche ora prima dell’accaduto due piccole scosse, i cui motivi rimangono tutt’ora incerti.
Cleuber Moraes Brito, professore all’Università statale di Londrina, ha sottolineato che, nell’ultimo anno, la Samarco ha aumentato la produzione del 15% (circa 25 milioni di tonnellate di ferro), con un conseguente incremento dei rifiuti tossici. Pur essendo solo una speculazione, il mancato adeguamento delle dighe sarebbe una possibile causa del crollo delle stesse. Così come la Samarco, Brito punta il dito contro le istituzioni pubbliche per “la mancanza di preparazione tecnica e investimenti, [che] non realizzano in maniera soddisfacente il ruolo istituzionale di gestione ambientale delle attività inquinanti”. Multata per 1 miliardo di Reais (circa 260 milioni di dollari) dal Pubblico ministero di Minas Gerais, la Samarco ha parlato di assenza di sostanze nocive nell’acqua. Affermazione che striderebbe con le nove tonnellate di pesci morti raccolti tra Minas Gerais e Espirito Santo, secondo i dati forniti dall’IBAMA (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis).
Gli stessi studi eseguiti dalle Nazioni Unite accerterebbero la presenza di metalli pesanti tossici e inquinanti, che smentirebbero le prove date dalla Samarco. 200 villaggi sono stati colpiti direttamente dal disastro, e circa 250 mila persone sono rimaste senza acqua potabile, mentre il governo ha decretato lo “stato d’emergenza”. Toccanti sono le testimonianze di chi si è trovato in prima persona a fare i conti con l’inquinamento del fiume: Rodrigo Nunes Freire, un pescatore di Baixu Guando, ha pianto di fronte alla macabra visione, dicendo:”la mia vita è il fiume Doce”. Chi aveva vissuto di pesca fino a quel momento, si è visto portar via tutto.
Mentre la marea di fango rosso ha raggiunto l’Oceano Atlantico nella giornata del 22 novembre, le conseguenze del disastro naturale brasiliano sono già delineabili: dall’estinzione precoce di specie a rischio, alla contaminazione di tutti gli organismi viventi presenti nel bacino del fiume. Ciò che aggrava (se possibile) la situazione è l’incapacità di determinare con precisione la natura dei rifiuti tossici, perché derivanti da diversi processi di mineralizzazione, e quindi difficilmente identificabili con tempestività. Il fiume Doce, considerato un “tapete mortal” dal professor Paulo Saldiva dell’Università di San Paolo, avrà qualche possibilità di ritornare a scorrere entro cinque mesi, al termine del periodo delle piogge. Ma, in attesa di chiarezza, il disagio e la paura persistono.
Beatrice Baita