La dittatura dell’1%

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Come la disuguaglianza minaccia la democrazia

“L’estrema concentrazione del reddito è incompatibile con una reale democrazia. Potrebbe qualcuno negare seriamente che il nostro sistema politico è deformato dall’influenza dei grandi patrimoni e che la deformazione sta peggiorando a mano a mano che la ricchezza di pochi continua a crescere?”
Paul Krugman

Sono nato in uno dei trenta paesi più ricchi del pianeta, e questo fa di me una persona fortunata. Sono nato in Europa, e godo dei tanti diritti e vantaggi derivanti dall’essere parte di un sistema in cui vigono diritto e democrazia. Sono nato in una famiglia della cosiddetta middle class, e avendo avuto accesso alla maggior parte dei beni e servizi che il mondo libero mette a disposizione dei cittadini, ho condotto una vita più che decorosa, oserei dire, agiata. Sono figlio di un sistema nel quale, non senza qualche eccezione, il passaggio intergenerazionale era caratterizzato dal mantenimento della medesima qualità di vita, quando non addirittura da un incremento della stessa. Mi è stato insegnato, tra le tante altre cose, che la più grande delle ricchezze è la conoscenza, che il merito è la chiave del successo, che è la giustizia a tenere insieme le società, e che l’uguaglianza è un valore universale.

Corre l’anno 2015, ed ho la netta sensazione che quanto ho detto sinora abbia realmente poco peso. La realtà delle cose mi preoccupa, e da pessimista quale sono, vedo un futuro a tinte fosche. Per fortuna non mi sento solo! Vedo invece che nelle strade di tutto il mondo si riversano sempre più spesso cittadini per esprimere la propria frustrazione puntando il dito contro le istituzioni pubbliche e private, denunciando la differenza tra quello che i sistemi economici e politici dovrebbero fare – e che fanno credere possano fare – e ciò che effettivamente fanno.

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Ma qui l’obiettivo non è denunciare la mia (o altrui) preoccupazione, quanto spiegarne i motivi che risiedono nel crescere inesorabile della diseguaglianza a livello globale. Un fenomeno antico quanto la civiltà umana che, se fuori controllo, non soltanto genera malessere e rende meno efficienti le economie, ma mina le basi della società democratica. Come già ammoniva Tucidide: “I concetti della giustizia affiorano e assumono corpo nel linguaggio degli uomini quando la bilancia delle necessità sta sospesa in equilibrio tra due forze. Se no, a seconda, i potenti agiscono e i deboli si flettono”.

Partendo col darne una definizione, la disuguaglianza sociale è “una differenza (nei privilegi, nelle risorse e nei compensi) considerata da un gruppo sociale come ingiusta e pregiudizievole per le potenzialità degli individui della collettività. È una differenza oggettivamente misurabile e soggettivamente percepita”.

Restando sulla dimensione oggettiva del fenomeno, e circoscrivendolo alla sfera dei redditi, un recente rapporto di Credit Suisse conferma che nel 2014 l’1% della popolazione mondiale possedeva la metà (48%) della ricchezza presente sul pianeta terra, nonostante ad una persona bastino 3.650 dollari per rientrare a fare parte della “metà ricca” dei cittadini del mondo. Se ne deduce che l’altra metà, quella povera, possedesse soltanto l’1% della ricchezza globale.

Qualcuno direbbe, forse a ragione, che questa non è poi una grande novità. Se volessimo infatti risalire agli albori della civiltà umana per rintracciare la nascita della diseguaglianza nell’organizzazione delle prime “società civili” scopriremmo che fu lo stesso 1% a praticare la trasformazione da uguaglianza naturale ad uguaglianza politica (o giuridica) – ben spiegata da Rousseau nei suoi Discours – che ha sancito, reso stabile e irrimediabile la diseguaglianza economica (o reale).[1]

Dalle antiche civiltà sino alla rivoluzione industriale, i detentori di ricchezza si sono sforzati di accrescerla o quantomeno conservarla, plasmando anche il modo generale di pensare per rendere accettabile la disparità che altrimenti sarebbe risultata esecrabile. Così le nostre economie di mercato, capaci di auto-regolarsi attraverso la redistribuzione smithiana dalla “mano invisibile”, hanno continuato a generare un flusso costante che dal basso e dal mezzo ha portato la ricchezza verso l’alto.

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La sperequazione ha assunto sin dall’inizio la forma di un patto tra chi è in cima alla piramide ed il resto della società: “ognuno avrà la sua parte, qualcuno semplicemente ne avrà una più grande”. Il punto è che col passare degli anni questo tacito compromesso si è incrinato. E la stessa “teoria marginalista della produzione” – che prevede che chi è più produttivo guadagni di più in virtù del maggior contributo che porta alla società, quest’ultimo determinato sulla base della domanda e dell’offerta sul mercato – oggi stenta a reggere sotto i colpi di una globalizzazione così mal gestita[2] da generare una continua depressione dei salari.

Secondo gli esperti, le cause della crescita spropositata della diseguaglianza sono rintracciabili in una moltitudine di ragioni interconnesse. Per semplificare si potrebbe dire che sono almeno tre i fattori che ne hanno generato la repentina impennata: le distorsioni trasversali del mercato globale, l’aumento dei redditi da capitale legato ad un aumento delle transazioni finanziarie, nonché l’agire della politica e l’effetto delle sue politiche.

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Sorvolando sui primi due aspetti, che trovano copiosa trattazione nella letteratura dedicata, vorrei portare la vostra attenzione sull’ultimo dei fattori che ho elencato pocanzi. Poiché a me sembra che la disuguaglianza sia causa, nonché conseguenza, dell’operare del sistema politico e contribuisce all’instabilità del nostro sistema economico, il quale a sua volta contribuisce ad aumentare la disuguaglianza creando così una spirale discendente. Dalla concessione delle rendite sullo sfruttamento delle risorse naturali e sugli appalti pubblici, alla privatizzazione incontrollata dei beni e la creazione di moderni monopoli; dalla deregolamentazione sulle transazioni finanziarie e l’applicazione di politiche fiscali a vantaggio di pochi, alla destrutturazione dei sistemi sindacali; tutto sembra portarci a pensare che le scelte politiche ed economiche vadano direttamente a vantaggio di quell’1% e a discapito del restante 99%. E visto che il sistema economico sembra aver fallito nel garantire il benessere della maggior parte dei cittadini, e dal momento che la politica sembra ormai vittima degli interessi del denaro, sento che la fiducia nella democrazia, nel sistema economico e nello stato di diritto non può che disgregarsi, portando all’erosione inevitabile del senso d’identità nazionale.

Per spiegare quello a cui sto pensando, sono però costretto a compiere una breve digressione.

Tra gli elementi essenziali che determinano l’esistenza (o meno) delle comunità umane – intese come società piccole o grandi che siano – c’è la volontà di collaborare per un fine comune, ovvero il raggiungimento del benessere proprio e di quello altrui.

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Per il raggiungimento di tale condizione, ogni individuo sa che dovrà rispettare la regola d’oro della convivenza: accettare il compromesso. Un diktat attraverso il quale potrà star certo che i suoi interessi saranno considerati e perseguiti tanto quanto quelli altrui secondo un’alternanza di decisioni scandita dalle necessità prioritarie dell’intera comunità. Egli avrà fiducia nel fatto che, presto o tardi, la sua parola sarà ascoltata, i suoi bisogni esauditi, e la promessa a lui fatta rispettata.

Solo tale sistema ha garantito nel corso dei secoli la nascita ed il corretto funzionamento delle istituzioni rappresentative e dei sistemi politici democratici. Una forma di accordo ben descritta all’interno del contratto sociale come mezzo di legittimazione di un potere superiore che governasse la vita degli uomini.

Collaborazione e fiducia stanno alla base delle istituzioni cooperative quali sono i governi. Ciò che in gergo sociologico viene definito “capitale sociale” è il collante delle società, ciò che tiene uniti gli individui e che spinge gli stessi a riconoscersi come portatori di responsabilità civiche e beneficiari dei diritti ad esse corrispondenti.

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E’ proprio la politica (laddove per politica si intende un establishment alla guida di un Paese) a dover garantire l’esistenza delle condizioni che consentono ai cittadini di fidarsi reciprocamente l’uno dell’altro e cooperare per il bene comune (e proprio). Nel momento in cui dovessero rendersi conto che il sistema “è truccato”, che è ingiusto, gli individui si sentirebbero liberi dagli obblighi della virtù civile. E quando il contratto sociale è abrogato, quando la fiducia viene meno, ne seguono disillusioni, disimpegno o anche peggio.[3]

Le istituzioni rappresentative (come i governi) riescono a fare bene il loro lavoro solo quando sono supportate dall’agire a livello collettivo, quando gli interessi e le prospettive dei membri di quel gruppo sociale sono almeno in parte allineati. Ma è chiaro a tutti che oggi la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non si trova sulla stessa barca (o sullo stesso yacht) del fortunato 1%.

Se, come accade, oggi la politica, la finanza, gli affari, il mondo del lavoro non riescono a generare legame sociale e fiducia nel cittadino, essi stessi smettono di essere efficienti e salta il principio di cooperazione democratica. La percezione di vivere in un sistema iniquo (il divario tra l’1% e gli altri sembra incolmabile), la sfiducia nell’informazione (i mass media sono al servizio di chi è pronto a pagare), il disinteresse verso la cosa pubblica o l’annullata volontà di esprimere la propria volontà elettorale (la sensazione di non poter far nulla si prova a vari livelli di rapporto col governo) conosciuta come smobilitazione elettorale[4]: tutte cause di una sempre più marcata disaffezione per la democrazia.

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Come mostrano i dati, l’imbarazzante conseguenza è che si debbano sempre più soldi per convincere gli “aventi diritto” a recarsi nelle cabine elettorali per esprimere il proprio consenso.

La classe media, sempre più assottigliata dalla polarizzazione del mercato del lavoro, è quella che maggiormente risente del problema. Da sempre la più incline a capire perché in democrazia votare è importante – ai ricchi non serve uno stato di diritti, possono plasmare e di fatto plasmano il procedere economico e politico perché lavori per loro (lobbying) – sta perdendo ogni illusione rispetto ad un procedere politico che evidentemente non fa i suoi interessi.

La diseguaglianza eccessiva deteriora la qualità della democrazia, la trasforma in oligarchia – rovesciando peraltro, la famosa curva di Kuznets – e modifica la diseguaglianza stessa da fattore economico a fattore politico, autoriproducente grazie al controllo delle istituzioni che diventano estrattive. Come insegna Acemoglu, nel lungo periodo “istituzioni estrattive concentrano il potere e la ricchezza nelle mani di chi domina […] aprendo la strada al malcontento, al conflitto […] e al graduale fallimento dello Stato.”[5]

Io sono preoccupato… E voi?

Per una panoramica sulla disuguaglianza globale (e in Italia)

Internazionale – Atlante: http://archivio.internazionale.it/atlante/disuguaglianze

Sulle distorsioni del mercato globale:

“A Bit Rich”: http://www.neweconomics.org/publications/entry/a-bit-rich

“Il Giusto Salario”: http://www.lundici.it/2012/02/il-giusto-salario/

“Skill-biased Technology Change”: http://www.liuc.it/krugmanobstfeld/lavoro/default.htm

Per un’analisi comparativa:

ILO “Global Wage Report”: http://www.ilo.org/global/publications/books/WCMS_324678/lang–en/index.htm

World Bank Estimates – Grafici indice Gini: http://data.worldbank.org/indicator/SI.POV.GINI/countries?display=graph

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[1] In un mondo primitivo senza alcun principio ordinatore, in cui gli uomini erano esposti “all’orrore di una situazione che li armava gli uni contro gli altri e che rendeva i loro possessi altrettanto onerosi dei loro bisogni”, furono i più facoltosi ad avvertire la necessità di creare un potere supremo che governasse secondo le leggi sottomettendo il forte e il debole a doveri reciproci. Dal momento che “i poveri non avevano da perdere che la loro libertà, sarebbe stata una follia il togliersi volontariamente il solo bene che rimanesse loro per non guadagnare nulla in cambio, mentre al contrario poiché i ricchi erano vulnerabili in tutte le parti dei loro averi, era molto più facile fare loro del male, e quindi dovevano di conseguenza usare maggiore precauzione per difendersene. […] E’ ragionevole pensare che una cosa sia stata creata da coloro cui è utile piuttosto da coloro cui fa danno”.

[2] Con l’elevata mobilità di capitale – e il basso livello delle tariffe commerciali – ogni impresa oggi può dire ai propri lavoratori che se non accettano salari inferiori e condizioni di lavoro peggiori, l’azienda si sposterà altrove. Competizione globale tra i lavoratori ed evoluzione tecnica (skill-biased technological change) stanno generando un effetto devastante sui salari medi, in particolar modo nelle economie sviluppate. Ci si aspetterebbe che fosse lo Stato – attraverso una tassazione scalare – a sopperire alle perdite di chi “resta indietro” (poiché ad esempio estromesso dalla forza lavoro a causa delle importazioni) con i propri ammortizzatori sociali. Ma il welfare è un lusso che, nell’era della globalizzazione, i governi non si possono più permettere. La competitività induce ad alleggerire la tassazione progressiva e tagliare le spese sociali.

[3] http://www.pewresearch.org/files/old-assets/pdf/dissecting-2008-electorate.pdf

[4] Nel 2005 in Germania l’affluenza alle urne è stata del 77,7% (nel 2012 in Nord-Reno Westfalia il 59%), in Spagna nel 2008 del 76%, in Austria nel 2006 del 74,2%, in Francia al primo turno delle presidenziali 2012 del 57% (al secondo turno il 56,29%), in Svizzera nel 2007 del 48,3%, il Grecia il 6 maggio scorso (appuntamento temutissimo) del 60%, in Gran Bretagna nel 2010 del 65,1% (e nel 2012 per il sindaco di Londra appena del 32%). Negli Stati Uniti il voto del 2008 (quello della storica vittoria di Obama) è stato il più partecipato (oltre il 64%) dal lontano 1960 di John F. Kennedy contro Richard Nixon (63,8%), ma soltanto il 20% dei giovani aventi diritto si è presentato alle urne. ”La Stampa” – 30/10/2012

[5] Daron Acemoglu, James A. Robinson. “Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity and Poverty”. 2012

Paolo Iancale