I sistemi politici democratici stanno vivendo un momento piuttosto complicato. Come ogni realizzazione umana, anche la democrazia non è immutabile. I primi cambiamenti sono già visibili in molte democrazie mature, ma è ancora prematuro immaginare i contorni che le stesse assumeranno in futuro e la portata dei loro effetti. Ciò che invece si può già rilevare è il successo di sistemi politici che ibridano democrazia e dittatura.
La democrazia è in crisi. Nonostante sia tutt’ora la forma di governo più auspicabile – generalmente e genericamente una democrazia è un sistema politico dove i cittadini compiono liberamente scelte elettorali, dove esistono una serie di pesi e contrappesi limitanti per l’esercizio del potere e dove è tutelata la libertà di pensiero – nel mondo sono percepibili alcuni sintomi di stanchezza nell’ideologia democratica. Contrariamente a quello che si è assistito nell’immediato dopoguerra, con un’aumento esponenziale delle democrazie in tutto il mondo in un lasso di tempo relativamente breve, negli ultimi anni abbiamo osservato a fallimenti più o meno caotici della democrazia. I regimi dittatoriali continuano a non piacere, ma quando si riescono ad abbattere ciò che viene dopo raramente è migliore di ciò che c’era prima.
Basti pensare ai paesi toccati dalle cosìddette “primavere arabe”, all’Ucraina, passando per la Turchia e ad alcuni paesi del sud-est asiatico. E non serve citare gli improbabili tentativi che hanno riguardato alcuni paesi mediorientali, dove si è tentato di “esportare” la democrazia come se fosse una merce invece che un concetto prima filosofico che politico, circoscrivibile solo in determinati contesti storici e culturali. È come se il furore democratico del dopoguerra abbia terminato la propria spinta propulsiva o, più semplicemente, si sia arrivati a un livello saturo di democrazia nel sistema internazionale, a cui si va ad aggiungere l’enorme potere distorsivo economico-finanziario, che qui non verrà trattato per una questione di brevità.
E se di spinta propulsiva parliamo, è difficile non notare come anche in quei paesi dove la democrazia si pensava affermata, o dove era in fase di affermazione, è emerso da tempo uno dei più evidenti sintomi – ma non l’unico – della crisi del processo democratico: il drastico calo di affluenza elettorale, ben evidenziato dai dati raccolti nei due seguenti grafici.
E se è vero come scrive nell’introduzione del suo paper Barry C. Burden che l’affluenza elettorale “is the most common and probably the most important component of an individual’s participation in the political process”, allora forse c’è davvero qualcosa che che si è rotto, o che si sta rompendo, nella democrazia per come la conosciamo.
Appurato che lo stato di salute della “funzione democratica” non è dei migliori, possiamo passare al successivo sintomo che emerge dall’osservazione delle vicende internazionali: l’ascesa delle democrazie oligarchiche, autocratiche, plutocratiche ed autoritarie. Negli ultimi anni, terminata l’ubriacatura idealista da “fine della storia” che scaturì dal crollo del Muro di Berlino, nel mondo si è assistito a un aumento nel numero, e a un buon grado di “successo politico”, di polity statuali che nonostante abbiano nel loro sistema politico alcuni elementi democratici, di democratico, (almeno secondo i nostri standard), hanno ben poco.
Si pensi alla Russia o alla Cina, che hanno sistemi politici sì diversi, ma che sono accomunati dalla sostanziale limitazione del dissenso e dalla mancanza di poteri di bilanciamento separati ed indipendenti. Queste “mancanze”, come vedremo, sono così giustificate: dare più forza alle prerogative di competizione internazionale in un mondo che sta diventando multipolare. Non è detto che questi sistemi politici dureranno a lungo, ma al momento sono questi sistemi che hanno sostituito le democrazie liberali tra gli esempi da seguire nell’immaginario dei paesi che vogliono farsi potenze all’interno di un sistema internazionale sempre più caotico e regolato, nei fatti, dall’assenza di regole.
Un altro elemento – collegato indirettamente all’assenza di regole e all’aumento del caos sistemico – che va a favorire le “democrature” rispetto alle democrazie, è la velocità con cui oggi gli Stati sono chiamati a decidere su un sempre maggior numero di questioni. Nel mondo, a causa della globalizzazione e delle tecnologie informatiche, è avvantaggiato chi riesce a compiere scelte rapide. Le democrazie, con il loro livello di discussione interna ed esterna, peccano in velocità decisionale.
Magari possono fare scelte più ragionate (e non è sempre detto), ma una scelta ragionata che arriva tardi sarà meno efficace di una scelta impulsiva arrivata al momento giusto. Avere meno livelli decisionali intermedi in un mondo che corre veloce non solo può essere consigliabile, ma diventa inevitabile se non si vuole galleggiare passivamente in un ambiente costruito dalle decisioni politiche altrui. In questo contesto è anche comprensibile che vi sia un allontanamento dell’elettorato nei confronti di chi prende le decisioni politiche. Decisioni lente e procrastinate nel tempo possono distruggere l’accountability tra elettore e politica: perché dovrei votare quando non c’è evidenza dei risultati ed una più o meno apparente assenza di responsabili?
A supporto di questa tesi si può notare come anche nella più duratura ed importante democrazia del mondo – gli Stati Uniti d’America – sia in atto un lento e fisiologico aumento del potere presidenziale su quello del congresso. Per Matthew Yglesias di Vox.com ciò potrebbe anticipare il collasso della democrazia statunitense. Forse l’allarme è eccessivo, ma che vi sia un mutamento nei rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo negli Usa è un dato di fatto riconosciuto da molti analisti.
Non è peraltro una dinamica prettamente statunitense, e ciò può essere spiegato facilmente: come è risaputo, il potere governativo, anche nelle più solide democrazie, può “invadere” il campo del potere legislativo e giudiziario (si pensi alla “legge marziale”) nei casi in cui il paese si trovasse investito da una o più crisi, come può essere una guerra, una catastrofe naturale o il collasso economico. In questi “casi eccezionali” i governi possono prendere decisioni importanti e rapide scavalcando i parlamenti: quando aumenta l’instabilità serve un potere più “pesante” ed incisivo per stabilizzare il sistema politico. È su queste premesse che è stata costruita l’esigenza costituzionale degli atti governativi che in Italia prendono il nome di “decreti legge” (ma che esistono in ogni democrazia, in forme più o meno simili).
Quando però la tendenza generale vira verso l’instabilità sistemica, allora la rilevanza “eccezionale” di questi atti si trasforma in necessità abitudinaria. Lo “stato di crisi”, che per sua natura dovrebbe essere raro, diventa una presenza costante dell’universo politico; ed ogni sistema politico che vuole mantenersi nel tempo, deve al tempo sapersi adattare. Se questo adattamento avverrà per via volontaria (la Russia di Putin) o involontaria (gli Usa preconizzati da Yglesias) non è poi molto rilevante in funzione degli effetti che verranno prodotti.
È poi difficile dire oggi se sia auspicabile un mutamento – che è già in corso – dei sistemi democratici verso nuove forme politiche più agili e capaci di gestire in minor tempo la complessità e la velocità dei mutamenti globali. Le democrazie dovranno saper trovare nuovi equilibri, nuove forme di controllo e nuovi paradigmi decisionali. In sostanza, il vero problema non sarà il “se“, ma il “come” e il “quando“.
L’unica certezza è che, come ha scritto in un bel paragone Foreign Policy,
If forms of government can be likened to operating systems, current variants of democracy are a bit like early, primitive versions of Windows. They are neither optimally functional nor user-friendly — they are buggy, susceptible to malware, and lack desired features.
di Lorenzo Carota