Domenica 22 maggio si terrà a Istanbul il Congresso straordinario nazionale dell’Akp, partito di governo in Turchia. Il vertice si è reso necessario dopo che il Presidente Erdogan ha “licenziato”, nei fatti, il suo braccio destro, il Primo ministro Ahmet Davutoglu, diplomaticamente impegnato in complicate trattative internazionali.
Giovedì 5 maggio il Primo ministro turco Ahmet Davutoglu ha comunicato che rassegnerà le proprie dimissioni durante il Congresso straordinario dell’Akp convocato per domenica 22 maggio. Le dimissioni riguarderanno sia il suo ruolo come capo del governo sia la leadership del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), carica ottenuta nel 2014 grazie al sostegno dell’attuale Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan. Davutoglu arriva dal mondo accademico, e non è mai stato un uomo di partito fino a quando, lo stesso Erdogan, lo scelse come Ministro degli Esteri nel 2009. La sua elezione alla leadership del partito – e conseguentemente alla carica di Primo ministro – è stata vissuta come l’imposizione di un outsider da parte degli altri esponenti dell’Akp. Erdogan si è sempre fidato di lui, dei suoi rapporti internazionali e della sua competenza (Foreign Policy lo definì nel 2010 “l’uomo dietro al risveglio globale della Turchia”).
Di solito non si “licenzia” un uomo che – nonostante fosse risaputo che il suo incarico sarebbe stato a tempo determinato – sta delicatamente gestendo diversi dossier internazionali di estrema importanza, dai rapporti con la Nato fino alle trattative con l’Ue. Un uomo che “sarà ricordato come colui che accettò di diventare Primo ministro in tempi bui e, discutibilmente, cercò di fare del suo meglio, pur ritrovandosi strettissimi margini di manovra politica”, per dirla con le parole di Mustafa Akyol, rinomato giornalista turco.
Non si estromette un uomo che, come ricorda Daniele Santoro su Limes, “ha sbancato il tavolo europeo” ed è volato a Teheran inaugurando un’importante fase distensiva nelle complicate relazioni tra quei due Paesi – un po’ avversari, un po’ complementari – che avrebbero potuto in futuro rispolverare “il vecchio progetto di cogestire il Medio Oriente”.
La decisione di scaricare un uomo così, in uno scenario come quello attuale, la può prendere solo qualcuno che abbia perso interesse a condividere il potere e che abbia paura di vedere offuscata la sua leadership da eventuali risultati positivi ottenuti dal successore designato.
Ed ecco quindi che la volontà di Davutoglu – stimato professore di scienze politiche all’Università di Istanbul – di recarsi in visita a Washington a poche settimane di distanza dal viaggio di Erdogan in America si è trasformato in un’affronto (il casus belli della sua destituzione). E sono diventate minacce sia il (piccolo) seguito dell’ormai ex Primo ministro – attestato dal successo dell’Akp nelle elezioni del 1 Novembre – sia il favore dei leader europei circa il suo operato. Martin Shultz ha dichiarato che Ahmet Davutoglu è stato uno tra gli interlocutori maggiormente affidabili e propositivi dell’intero processo negoziale di avvicinamento tra Turchia e Unione Europea: era il 1963 quando iniziò questo lento cammino fatto di modesti passi avanti e brusche battute d’arresto.
Non sono state sufficienti le legittimazioni del mondo occidentale susseguitesi nel corso del XX secolo a convincere l’”Europa di Bruxelles” a far entrare la Turchia nell’Unione. Non è bastato l’inserimento del paese all’interno d’importanti organismi internazionali come le Nazioni Unite nel 1946, l’Osce e il Consiglio d’Europa nel 1949, la Nato nel 1952. I negoziati d’adesione tra Turchia e Ue hanno preso il via nel 2005 e non si chiuderanno mai. Non che la cosa – oggi – interessi particolarmente alla Turchia, che non solo non ha alcuna intenzione di entrare a far parte del decaduto club democratico, ma si trova anche in una posizione di forza dalla quale può permettersi di rispondere alla richiesta di rivedere la legge anti-terrorismo con un “We’ll go our way, you go yours” (la legge anti-terrorismo turca non rispetterebbe gli standard europei, mentre il suo adeguamento è una delle clausole irrinunciabili inserite dall’Ue nell’accordo sulla gestione dei migranti, per sbloccare i visti per i cittadini turchi diretti nello spazio Schengen, chiesta dalla parte turca come contraltare all’accordo).
La “classe dirigente” europea ha tremato una volta appreso delle dimissioni di Davutoglu, dato che ha compreso di aver perso un uomo collaborativo in un momento estremamente delicato. Se da un lato Davutoglu può essere considerato il principale responsabile della fallimentare politica estera turca in Medioriente (insieme a Erdogan ha tentato per anni di rovesciare il regime di Bashar al Assad) dall’altro è riuscito a strappare in sede comunitaria un accordo che ha dell’incredibile, dato che la sua sottoscrizione attesta un’Europa tenuta in scacco da una Turchia che nella persona del Presidente della Repubblica la minaccia di riempire bus di rifugiati siriani per spedirli all’interno del territorio comunitario. Un’Europa vulnerabile accusata di indifferenza dai leader turchi (e da Erdogan) di fronte alla minaccia terroristica che colpisce il loro paese, dopo aver visto che a Bruxelles sventolavano le bandiere del PKK (dichiarata anche dall’UE una organizzazione terroristica). Erdogan ha rivendicato la paternità dell’accordo sulla liberalizzazione dei visti puntualizzando che quando era ancora Primo ministro aveva annunciato che sarebbe accaduto nell’ottobre 2016.
Un accordo che tuttavia è stato sottoscritto da Davutoglu che anzi ha (ri)mediato alle intemperanze caratteriali del Presidente che, ad esempio, lo hanno portato a rivaleggiare apertamente con con il suo non-più-amico Fethullah Gulen, proprietario del gruppo editoriale Feza posto sotto sequestro a pochi giorni dal vertice Ue (in barba alla libertà di stampa, altra clausola che la Turchia non starebbe rispettando tra quelle enunciate dall’Europa per poter accettare un accordo).
Davutoglu deve la sua carriera politica a Tayyip Erdogan che, dopo averlo nominato prima consulente di politica estera, poi Ministro degli esteri e infine Primo ministro, oggi pone fine alla sua parabola politica, accusandolo implicitamente di aver cercato di ritagliarsi una sfera di autonomia sempre maggiore.
Solitamente quando si sceglie un “tirapiedi” non ci si aspetta che lo stesso metta in discussione le scelte del Capo. Davutoglu non condivideva pienamente le ambizioni presidenzialiste di Erdogan e sicuramente ha avuto da ridire sulla gestione della guerra condotta dalle Forze di Stato turche – Reuters stima 10 mila soldati mobilitati – nel sud-est del Paese contro i terroristi del PKK e a spese della popolazione curda. Le notizie che trapelano dall’area da quando si è deciso di buttare alle ortiche tre anni di colloqui di pace tra lo Stato turco e l’irredentismo curdo, sono poche e poco rassicuranti. Nella sola città di Cizre al confine tra Siria e Iraq avrebbero perso la vita a seguito dei combattimenti nelle ultime settimane oltre 200 persone, e migliaia sarebbero gli sfollati.
Risale alla settimana scorsa una dichiarazione delle Nazioni Unite preoccupate per la presunta violazione dei diritti umani nelle aree oggetto delle operazioni militari. Zeid Ra’ad Al Hussein (alto commissario ONU) prende atto del diniego turco a inviare sul luogo osservatori e giornalisti e constata come nel 2016 l’inaccessibilità dell’area unitamente alla mancanza di informazioni su un territorio così esteso sia strabiliante e preoccupante allo stesso tempo.
Formalizzare l’accentramento del potere nelle mani di un solo uomo che negli ultimi anni ha dato prova di abusarne è un processo che Davutoglu non si è sentito di accellerare e con tutta probabilità è stata questa la ragione della sua destituzione. Erdogan, con l’aiuto inconsapevole dell’Europa, ha messo la parola fine alla tradizione d’ispirazione democratica kemalista in Turchia; la riforma della costituzione è inevitabile, come affermato anche dal Presidente stesso “we are at a point of no return”.
Conta poco il nome di chi il 22 maggio, diventerà il nuovo “capo” del governo e contestualmente il nuovo “leader” dell’Akp, dato che una volta che sarà approvata la riforma costituzionale in senso presidenziale, sarà formalizzato lo strapotere dell’esecutivo che da tre anni Erdogan esercita nella sua persona e, a quel punto, verrà meno l’esigenza di un secondo uomo all’interno del sistema. Tuttavia l’erede di Davutoglu sarà nominato domenica in occasione di un Congresso straordinario indetto dal partito e con tutta probabilità sarà Binali Yildirim, curdo, attuale Ministro dei Trasporti , fedelissimo del Presidente e unico candidato in lizza.
Eliza Ungaro