La Norvegia è stata il primo paese europeo e primo membro della NATO a estendere il servizio militare obbligatorio a entrambi i sessi, ponendo particolare attenzione all’eguaglianza di genere e alle pari opportunità attraverso un particolare esperimento che vi raccontiamo.
Nel 2014 il Parlamento norvegese ha promosso l’iniziativa di Ine Eriksen Søreide, Ministro della Difesa in carica, di estendere il servizio di leva obbligatorio anche alle donne di età compresa tra i 19 e i 44 anni, della durata di 19 mesi. La proposta ha ottenuto la maggioranza in Parlamento (con solo 6 voti contrari su 102) e l’iniziativa è entrata in vigore nell’estate del 2016 con l’obiettivo di portare la partecipazione femminile nelle forze armate al 20% entro il 2020.
Questa novità è pensata non solo per la difesa nazionale, ma anche per facilitare l’uguaglianza di genere e rafforzare concretamente le azioni ispirate alle pari opportunità: questa iniziativa non andrà a incidere sul numero totale dei selezionati, ma sulla loro composizione, integrando effettivamente solamente un sesto degli uomini e delle donne in età di leva. In tal modo, il sistema di difesa norvegese, nelle intenzioni, sarà più preparato per far fronte alle sfide internazionali, potendo disporre di bravi soldati a dispetto del genere.
Sicuramente l’approvazione di questa proposta è stata facilitata dal fatto che il Paese era già in possesso di un background politico favorevole all’apertura sulle questioni di pari opportunità in molti settori della vita pubblica – di cui il comparto militare fa parte – essendo un paese che peraltro è stato guidato negli ultimi 16 anni da ben 5 donne (Erna Solberg è Primo Ministro in carica dal 2013, Kristin Krohn Devold ha ricoperto la carica di Ministro della Difesa dal 2001 al 2005, Anne-Grete Strøm-Erichsen ha ricoperto la stessa carica per due volte dal 2005 al 2009 e dal 2012 al 2013, Grete Faremo dal 2009 al 2011 mentre Ine Eriksen Søreide detiene la carica dal 2013).
I primi passi verso le pari opportunità
Inizialmente la presenza femminile all’interno delle forze armate era maggiore tra le funzioni di supporto, quali l’assistenza medica o nelle bande musicali militari. Ma ciò sembra derivare piuttosto da pregiudizi che dalle capacità, dato che l’idea che le donne non siano brave a combattere ne determina a priori l’esclusione dall’esercito.
Un primo passo avanti venne compiuto nel 1988, quando la Norvegia (insieme a Israele) divenne il primo paese ad abolire completamente le barriere di genere nelle forze armate, facilitando l’accesso femminile anche ai ruoli di combattimento in prima linea.
Da allora, le forze armate si sono impegnate molto per attirare le donne verso la carriera militare, non solo attraverso campagne di reclutamento mirate, ma anche organizzando week-end a porte aperte per dare la possibilità di esperire la vita militare.
Proprio per alleviare questa disparità numerica, nel 2014 è stato introdotto ed approvato un nuovo esperimento radicale, che ha trasformato il battaglione di difesa aerea e missilistica appartenente alla 138esima divisione della base aerea di Orland, nella Norvegia centrale, in una formazione fifty-fifty, ossia composta dal 50% di donne e dal 50% di maschile.
L’esperimento ha dato esiti positivi: difatti, una volta concluso, la quota femminile all’interno del battaglione è arrivata al 45% e sono stati promossi al massimo livello sempre più agenti di sesso femminile. L’esempio più significativo è quello di Kristin Lund, che tre anni fa diventò la prima comandante donna delle Nazioni Unite in operazioni di peacekeeping.
Nonostante i tentativi, le quote rosa all’interno delle forze armate rimangono esigue: infatti, secondo un rapporto del Försvarets Forskningsinstitutt (Istituto di Ricerca nell’ambito della Difesa norvegese), le donne rappresentano solo il 10% delle forze armate norvegesi. Inoltre, delle donne che entrano a far parte delle forze armate, più del 12% in età compresa tra i 20 e i 24 anni abbandona in anticipo la carriera militare.
I vantaggi e i rischi dell’integrazione di genere
L’esperimento è stato visto come una novità dirompente nel contesto militare. Infatti la piena integrazione di genere è stata fin da subito oggetto di critiche, principalmente mosse per il rischio di coinvolgimenti amorosi e di molestie sessuali che la convivenza a stretto contatto fra uomo e donna comporterebbe, minando l’efficacia delle forze armate stesse.
Timori in qualche modo fondati: un sondaggio effettuato dalle Forze Armate Norvegesi nel 2015 ha mostrato che il 18% delle donne è stato soggetto a molestie sessuali. I difensori di questo esperimento sottolineano come questa integrazione non sia un fatto inusuale, dato che sin dall’infanzia l’educazione dei bambini viene intrapresa in un ambiente misto, dove le differenze di genere tendono a non essere enfatizzate. Per quanto riguarda invece il rischio di molestie sessuali, la piena integrazione di genere rappresenterebbe la soluzione adatta in merito, poiché porterebbe alla coesione tra i sessi nonché alla normalizzazione delle differenze.
La presenza di strutture separate, oltre a richiedere spese maggiori, sarebbe controproducente, dato che andrebbe a isolare le donne sottoponendole a questo rischio. Un sondaggio effettuato nel 2015 dall’Università di Harvard ha mostrato che il 75% degli stupri e dei tentativi di stupro ha avuto luogo nei dormitori.
La condivisione di molte attività quotidiane (dagli allenamenti ai pasti) insieme ai ritmi serrati che la vita militare impone rendono impercettibile la differenza di genere. Lavorando duramente tutto il giorno infatti, l’attrazione verso l’altro viene a meno e viene favorita più una visione di gruppo che individuale, dato che uomini e donne vengono trattati esattamente allo stesso modo dovendo soddisfare entrambi gli stessi criteri di base.
Tra passato e futuro
Nonostante l’esperimento norvegese rappresenti una grande novità, purtroppo la piena integrazione di genere rimane una chimera, dato che la separazione in dormitori, reparti e bagni permane, inevitabilmente, nella maggior parte degli eserciti.
Esistono inoltre unità militari in cui la parità di genere non potrà mai essere raggiunta, come i corpi speciali e la fanteria, le quali richiedono una forza fisica che non può essere sopportata dal corpo femminile. Ciononostante i risultati ottenuti dal battaglione di Orland potrebbero introdurre dei cambiamenti all’interno della gestione militare e l’esperimento potrebbe essere preso ad esempio da altri paesi.
La fattibilità di un’unità fifty-fifty rappresenterebbe la soluzione migliore nel caso in cui si verifichi il bisogno da parte di uno Stato di rinforzare la propria parte femminile militare. Sotto questo punto di vista, la Francia potrebbe fare a meno di applicare quest’iniziativa essendo il paese europeo con la più alta percentuale di donne nell’esercito, grazie al diritto di adesione volontaria ottenuto nel 1972 e alla revoca dei limiti imposti alla loro partecipazione in alcuni settori nel 1998.
D’altro canto invece, nei paesi dove permane la leva obbligatoria, ci sarebbero più possibilità di applicare l’iniziativa norvegese, data la presenza della sola coscrizione maschile, lasciando alle donne la libera scelta di aderire o meno alle forze armate come in Svizzera, in Austria o in Lituania, dove recentemente è stato reintrodotto il servizio militare obbligatorio per far fronte al timore di un’eventuale espansione russa, scaturito dagli ultimi eventi in Ucraina.
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L’unico Paese che potrebbe adottare interamente il modello norvegese sarebbe la Svezia, che ha manifestato la volontà di introdurre la coscrizione militare obbligatoria per entrambi i sessi, decisione comunque da attendersi non prima del 2018.
In Italia invece l’adesione volontaria femminile alle forze armate è possibile dal 2000, grazie alla legge n. 380 del 20 ottobre 1999, e l’esempio norvegese ha riscosso un certo consenso nonostante i dubbi legati ai preconcetti che pregiudicherebbero la sua applicazione, come è evidente dalle parole di Giampaolo Di Paola, Ministro della Difesa dal 2011 al 2013:
“Sarebbe meglio disporre della presenza femminile in grandi numeri e in determinate unità piuttosto che averle presenti ovunque ma in maniera modesta […] Ma poi si ricadrebbe nelle solite questioni di abilità o capacità, che ci impedirebbero la messa in atto di questa politica”.
Un’altra questione in sospeso è legata al credo religioso, che influisce anche sull’applicazione dell’esempio norvegese; spesso infatti, per motivi religiosi, i soldati non accettano la convivenza all’interno di ambienti misti. In Svezia, in altri ambiti extra-militari, si sta già facendo fronte a questo bisogno, dato che i credenti musulmani rappresentano circa il 5% della popolazione. Per esempio, sono stati stipulati accordi speciali per tutelare gli studenti musulmani, dando loro la possibilità di pernottare in camere separate durante le gite scolastiche e il diritto di utilizzare box doccia singoli dopo le attività sportive, tutelando allo stesso tempo il loro credo.
Modalità simili sono state adottate anche dalla Germania, che ha costruito piscine separate per uomini e donne proprio per andare incontro ai credenti musulmani, che ormai rappresentano il 5,8% della popolazione.
Questi esempi testimoniano come la religione, sebbene sia totalmente agli antipodi rispetto alla cultura militare, venga sempre tutelata, in modo tale da non rappresentare motivo di esclusione dalle forze armate per chiunque ne voglia far parte.
Di Federica Vanzulli