Politica estera, Stati Uniti, Corea e (ovviamente) Europa. L’intervista esclusiva per Zeppelin a Brando Benifei, deputato al Parlamento europeo e membro della Commissione parlamentare per la sicurezza e difesa europea.
Onorevole Benifei, l’Europa è al giro di boa. Immigrazione, crisi economica, forse un punto di partenza verso una maggiore integrazione politica sarà con gli accordi “Pesco” in materia di difesa comune. Come vede l’Unione tra vent’anni?
Da federalista europeo non posso che essere favorevole a una difesa comune, tuttavia questo passo in avanti non deve farci dimenticare gli squilibri e le disuguaglianze che in seguito alla crisi non sono state rimarginati.
L’Unione europea è attualmente posta sempre più in discussione come unione politica, ma ciò è dovuto anche al fatto che c’è ancora molto da fare per migliorarla: innanzitutto occorre completare l’unione monetaria, dalla creazione di un ministro delle finanze europeo al coordinamento fiscale, al completamento dell’Unione bancaria, alla definizione di un più ampio insieme di risorse proprie; a questa va accompagnata l’unione sociale, con l’attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali in un programma legislativo dettagliato, non avendo il timore di proporre l’aggiunta di un protocollo sociale agli attuali trattati, come complemento e ampliamento della Carta dei Diritti Fondamentali.
Occorre poi ridurre la dimensione intergovernativa dei processi decisionali e i veti nazionali, partendo dalla fine dell’unanimità in Consiglio per alcune decisioni fondamentali, come in politica estera e sulla materiale fiscale. Dobbiamo sfruttare alcune contingenze per mettere in campo un piano ambizioso di riforma e rilancio del progetto europeo, non escludendo differenziazioni fra gruppi di paesi.
Parliamoci chiaro, il problema dell’immigrazione più che un problema nazionale dovrebbe essere una tematica di discussione sovranazionale, europea. Quale potrebbe essere la soluzione per superare il Trattato di Dublino, che ha dimostrato la sua inefficacia?
Come per tutte le questioni di scala continentale e internazionale, anche la gestione dei flussi migratori e delle crisi umanitarie che coinvolgono chi cerca asilo in Europa deve essere coordinata e governata a livello europeo, affinché l’onere non ricada esclusivamente sui paesi di frontiera, come l’Italia e la Grecia.
Il Parlamento di Bruxelles, nella commissione parlamentare competente, ha approvato lo scorso novembre la propria versione della riforma del Trattato di Dublino. Un testo di legge molto ambizioso, che introduce un sistema permanente, automatico e obbligatorio di quote per il ricollocamento dei richiedenti asilo.
Adesso la palla passa al Consiglio e, quindi, agli Stati membri, i quali però difficilmente troveranno un’intesa unitaria: per questo è necessario ragionare bene su quale tipo di concessione individuare nei negoziati pur di preservare il punto di maggiore interesse per noi italiani, cioè la cancellazione del principio del paese di primo ingresso, che oggi “intrappola” in Italia molti richiedenti asilo che vorrebbero raggiungere il Nord Europa, spesso per ritrovare dei familiari.
Restiamo in tema di politica europea. L’Alto rappresentante Federica Mogherini punta molto sulla difesa unica; se ne sta parlando al Consiglio in questi mesi. Un esercito europeo è davvero possibile?
In quanto membro della commissione parlamentare per la sicurezza e difesa europea, seguo costantemente e con grande interesse gli sviluppi in questo campo. La cooperazione rafforzata permanente (Pesco) rappresenta senza dubbio un grande passo in avanti verso una difesa comune, la quale era oggetto di discussione già nei primi anni Cinquanta (ricordiamo il progetto fallito della Comunità Europea di Difesa) e parte integrante della visione federalista che sposo.
La Pesco, oltre a dotare l’Unione di una componente essenziale per l’attuazione di una strategia per la sicurezza e difesa comune, favorisce la razionalizzazione delle risorse pubbliche e una maggiore cooperazione e sviluppo dell’industria e della ricerca europea nel settore, accanto ad altri ambiziosi programmi e nuovi fondi lanciati dall’Unione nell’ultimo anno.
Nonostante siamo ancora lontani dall’esercito europeo, i passi avanti compiuti in poco tempo sono stati molto significativi, per via della presa di coscienza da parte di molti Stati membri dell’importanza di adottare una vera politica comune di sicurezza e difesa – peraltro già prevista dal Trattato di Lisbona – per poter affrontare le attuali sfide di scala globale.
Passiamo alla politica estera. Il presidente Trump ha “riconosciuto” Gerusalemme come capitale di Israele. Qual è la posizione dell’Europa a riguardo?
L’Unione europea – così come l’Onu – ha reagito compatta all’annuncio di Trump di spostare la propria ambasciata a Gerusalemme: come affermato chiaramente dall’Alto rappresentante Federica Mogherini, noi non faremo altrettanto, come auspicato dal presidente Netanyahu.
Anzi, restiamo fermi nella convinzione che una simile azione unilaterale non faccia che infiammare gli animi, mettendo a repentaglio la stessa sicurezza di Israele e mandando in fumo i pochi, seppur timidi, sviluppi positivi che si erano registrati negli ultimi mesi in direzione di una possibile futura ripresa del Processo di pace.
Per l’Unione europea l’unica soluzione possibile è quella a due Stati, riconosciuti reciprocamente, sulla base dei confini del 1967, e continueremo a lavorare in questa direzione, assieme al resto della Comunità internazionale e in rispetto del diritto internazionale e delle Risoluzioni Onu al riguardo.
Certamente la politica aggressiva di espansione degli insediamenti del governo Netanyahu così come l’affanno nella riconciliazione nazionale fra Fatah e Hamas richiederebbero un maggiore attivismo politico da parte dell’Unione, primo partner commerciale di Israele e primo donatore per lo sviluppo delle istituzioni palestinesi, ma alcuni governi nazionali ad oggi frenano molto su un maggiore protagonismo del blocco europeo, nonostante sia sempre più necessario data la difficoltà evidente per gli Usa almeno nell’arco del tempo rimanente di questa Presidenza di presentarsi come “honest broker” di un percorso verso la pace.
Sempre a proposito di Stati Uniti. La Corea del Nord non manca di “stuzzicare” Washington
La minaccia nucleare nord-coreana ha assunto negli ultimi mesi toni sempre più inquietanti, al punto di mettere a serio rischio la stabilità della regione e di rendere la sciagurata ipotesi di una guerra nucleare sempre meno inverosimile.
Sono d’accordo con le sanzioni che la comunità internazionale ha stabilito compattamente nei confronti di Pyongyang e che, anzi, l’Unione europea ha per parte sua inasprito. Bisogna tuttavia evitare di cedere alle provocazioni, come invece gli Stati Uniti sembrano fare. L’inesperienza e l’arroganza del presidente americano costituiscono un fattore di rischio in più per i progressi nel dialogo, che vengono faticosamente portati avanti con tutti gli attori interessati, come Giappone, Corea del Sud, Russia e Cina.
Anche in questo contesto, e anche in merito al delicato accordo sul nucleare con l’Iran, messo in discussione dallo stesso Trump, l’Unione europea può diventare un attore sempre più centrale in ogni confronto internazionale, in una fase in cui gli Usa appaiono inaffidabili, perdono autorevolezza e, aggiungo, rischiano di legittimare una corsa agli armamenti nucleari con la pubblicazione della nuova, assai aggressiva, Nuclear Posture Review.
di Omar Porro