La nuova Commissione europea crede molto nel proprio Green Deal, il grande piano di investimenti che da qui al 2050 dovrebbe trasformare l’intera economia europea. Cerchiamo di capire di cosa si tratta e se potrà davvero impattare sulle vite dei cittadini.
Quando lo scorso 27 novembre Ursula von der Leyen aveva pubblicamente enfatizzato, di fronte al Parlamento europeo di Strasburgo in seduta plenaria, la rilevanza del piano chiamato European Green Deal, l’attenzione dei parlamentari e dei media è stata notevole.
Al grigio insediamento di una Commissione apparentemente debole – se non altro per il travagliato parto che aveva portato alla nomina di una Presidente effettuata in spregio alla “regola” dello Spitzenkandidat – sembrò seguire un inaspettato slancio propositivo capace di immaginare un’Europa che prende l’iniziativa.
Significativamente, tra l’altro, la responsabilità del Green Deal è stata fatta rientrare nella competenza del Vice Presidente esecutivo Frans Timmermans, a sottolineare il forte impegno congiunto dei due gruppi politici maggiormente rappresentati nel Parlamento europeo – popolari e socialdemocratici.
Nel succedersi degli eventi che hanno da allora infiammato il Medio Oriente e l’Africa nord-occidentale, l’attenzione degli osservatori della politica europea si è naturalmente spostata sui conflitti in corso e in fieri in tali regioni, e sulle relative contingenze diplomatico-militari.
Non ultimo perché i focolai di crisi esistenti in Iran o Libia mostrano nuovamente le carenze della capacità di influenza geopolitica dell’Unione Europea.
Accantonando per un momento la contingenza, riteniamo utile approfondire alcuni aspetti della progettata operazione Green Deal, non soltanto per cercare di comprenderne l’eventuale portata, ma anche allo scopo di individuare gli elementi che potrebbero aiutare l’Europa a rafforzarsi sul piano internazionale.
Il progetto e l’ambizione
Martedì 14 gennaio la Commissione ha presentato le modalità di massima e gli strumenti tecnici attraverso i quali si propone di portare a compimento il Patto verde europeo.
Stiamo parlando di un grande piano d’investimenti che dovrebbe permettere di mobilitare mille miliardi di fondi pubblici e privati nel corso dei prossimi dieci anni: dal nuovo Just Transition Fund (Fondo per la transizione equa), al fondo InvestEU (che rimpiazzerà il Fondo europeo per gli investimenti strategici, il c.d. Piano Junker), al contributo della Banca Europea degli Investimenti, l’articolata architettura del piano affianca agli strumenti del bilancio UE leve finanziarie e sinergie pubbliche e private sulla carta capaci di raggiungere l’obiettivo prefissato.
Lo scopo è quello di guidare l’economia dell’UE verso gli obiettivi del Green Deal (come delineati nella Comunicazione della Commissione dell’11.12.2019), sintetizzabili in quattro punti programmatici:
– Trasformare l’economia in climaticamente neutra entro il 2050;
– Proteggere le vite umane, animali e piante riducendo l’inquinamento;
– Aiutare le imprese a diventare leader mondiali nel campo delle tecnologie e dei prodotti puliti;
– Contribuire a una transizione giusta e inclusiva.
Fermo restando che i dettagli dell’intero piano sono ancora in fase di definizione – la tabella di marcia prevede che le proposte di ridefinizione della normativa europea e delle strategie industriali siano presentate a marzo, mentre un piano globale sarà approntato nel corso dell’estate – è comunque possibile individuare fin da ora le linee guida dell’operazione.
Queste prevedono tra l’altro:
- un ripensamento sostanziale delle politiche di approvvigionamento energetico in ogni settore dell’economia, anche attraverso dedicate misure di imposizione fiscale da prendersi a maggioranza qualificata anziché all’unanimità degli stati membri;
- una mobilitazione dell’industria per conseguire gli obiettivi di un’economia circolare a impatto climatico zero, dunque una strategia industriale definita a livello europeo che inquadri l’accesso alle risorse come questione di sicurezza strategica;
- interventi massivi in tema di ristrutturazione di edifici pubblici e privati e per la transizione verso una mobilità multimodale sostenibile;
- la riprogettazione della filiera alimentare e la preservazione ed il ripristino di ecosistemi e della biodiversità.
“Vaste programme” si potrebbe dire.
Interventi a largo raggio che delineano una visione strategica di lungo termine e comportano un fabbisogno di investimenti di dimensioni ingenti e la revisione almeno parziale dela governance economica europea e dunque dei bilanci nazionali.
Presupposto e conseguenza allo stesso tempo di tutto ciò è lo stimolo, essenziale, legato alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica: scuole, università, centri di ricerca, aziende e fondi d’investimento.
L’ambizione è dichiarata: rendere l’Unione leader mondiale della transizione ecologica, in quanto questa avrà un impatto profondo sull’assetto economico e politico mondiale e la leadership nella transizione assicurerà un vantaggio competitivo notevole, appunto, sia in termini politici che di interessi economici, industriali, commerciali e di sicurezza.
Il contesto e le difficoltà
È superfluo dire che il tema dei cambiamenti climatici è quanto mai attuale. La proposta della nuova Commissione europea ha il merito non tanto di porre l’argomento all’ordine del giorno, quanto di voler imprimere una svolta alla percezione dello stesso, assumendo la prospettiva di chi guarda alla crisi come occasione per modificare il proprio modello di sviluppo.
Non sono mancate tuttavia reazioni negative o quantomeno scettiche, vedasi per tutte la posizione di un’organizzazione come Greenpeace che, pur riconoscendo l’ambizione del piano, rileva come politiche e impegni in esso contenuti siano o troppo deboli o comunque non ben definiti – anche se va ribadito che la definizione delle linee operative e dei contenuti dettagliati delle azioni proseguiranno nei prossimi mesi.
Se da un lato una prima panoramica delle reazioni sembra oscillare tra il cauto apprezzamento e la sospensione del giudizio, dall’altro le maggiori critiche sono state, almeno da parte delle principali forze politiche ed organizzazioni ambientaliste, all’insegna del “too little too late”.
Sul piano delle reazioni governative, quasi tutti i paesi sembrano aderire, in linea di principio, al progetto del Green Deal. Tuttavia, anche qui, la differenza di visioni che sovente separa Est ed Ovest dell’Europa si riaffaccia.
La Polonia ha già manifestato la propria ritrosia ad un impegno pieno, vista la grande dipendenza della propria economia dal carbone (ma proprio in virtù di ciò, nelle previsioni della Commissione, potrebbe essere uno dei maggiori beneficiari di misure di compensazione).
In effetti, la condivisione piena tra le Istituzioni UE e tra gli stati membri di una strategia dettagliata potrebbe essere proprio l’elemento mancante in grado di far deragliare il treno del Green Deal.
Non bisogna dimenticare che è ancora in corso di definizione il budget europeo pluriennale 2021-2027, e le trattative andranno avanti per i prossimi mesi.
All’indomani del 14 gennaio, quando è stato presentato il “Piano d’investimenti per l’Europa sostenibile”, si sono immediatamente levate voci scettiche – e forse avvertimenti politici, sotto la forma di velate accuse di contabilità creativa e finanza immaginaria – circa la possibilità di riuscire a finanziare i mille miliardi previsti, per non parlare dello scoglio, enorme anche per una maggioranza qualificata, rappresentato dalla necessità di condividere una politica fiscale comune.
Vedasi quanto riportato quasi in tempo reale dalla stampa sensibile ai rumors politici brussellesi, che si chiede se questi soldi esistano davvero. Un dubbio che nasce dal fatto che nei metodi indicati dalla Commissione per finanziare il piano, grande importanza sono rivestite da azioni di leverage, di moltiplicazione e stimolo agli investimenti pubblici e privati.
Quello delle posizioni politiche è comunque soltanto uno degli aspetti rilevanti. A favore del momentum verde non è da sottovalutare il fatto che ormai da alcuni anni la c.d. economia verde si vede assegnare prospettive di crescita importanti, il settore pur nella sua frammentarietà attira l’interesse degli investitori, le iniziative finanziarie private sono in aumento ed i grandi investitori e banche d’affari da tempo hanno orientato importanti settori delle proprie attività verso il nuovo modello di business (un esempio per tutti, Goldman Sachs).
A livello europeo, d’altro canto, è già in corso la classificazione unificata delle attività finanziate sulla base del loro impatto verde; tale tassonomia dei finanziamenti sostenibili oltre a facilitare la visione d’insieme dell’impatto green o meno degli stessi e delle attività collegate è il presupposto, ad esempio, per la creazione di marchi verdi, o di norme ed obblighi specifici per i soggetti attivi, istituzionali o bancari, negli investimenti. Un importante e necessario lavoro propedeutico alla trasformazione economica è dunque già stato attivato ed è in corso.
Il rischio e l’opportunità
È probabilmente presto per esprimere un giudizio ponderato sulla consistenza e sulle capacità di riuscita del piano della Commissione Von der Leyen.
Quello che appare indubitabile è che il dibattito è stato finalmente spostato sul piano concreto dei progetti, dei finanziamenti, delle opportunità imprenditoriali e di creazione di posti di lavoro. Il tutto nell’ottica di far convergere sforzi comuni verso obiettivi di lungo periodo.
Il rischio è che dietro la facciata di un’efficace comunicazione si celi la realtà di strumenti inadatti o di politiche inconsistenti, oppure che per meschini calcoli ragionieristici singoli paesi non accordino al piano gli strumenti di bilancio e finanziari necessari o boicottino le procedure decisionali comuni.
L’opportunità è che l’Europa, continente obbligato ad importare energia in grandissima parte, “decadente” nel settore industriale, culturalmente e scientificamente ricco ma sfiduciato ed anziano, potrebbe avere lo stimolo di rinnovarsi.
Un elemento forse non abbastanza evidenziato finora nel dibattito, almeno a livello dei mezzi di informazione, è la sottintesa potenziale valenza geostrategica del piano Green Deal, ossia la sua importanza anche nell’ambito dei rapporti con le altre potenze continentali e con i paesi monopolisti nella produzione e nel controllo delle fonti energetiche.
È appena il caso di ricordare che più della metà del fabbisogno energetico dell’UE è coperta dalle importazioni (fonte: Eurostat) e che il nostro principale fornitore di petrolio greggio, gas naturale e combustibili solidi è la Russia. È recente l’attivazione del gasdotto Turkstream (rimpiazzo del progetto Southstream), che passando attraverso Mar Nero e Turchia rifornisce i paesi europei bypassando l’Ucraina, evitando così alla Russia di Putin ogni possibile problema con quest’ultimo paese (e con l’UE).
L’Europa si trova in tal modo non solo ad importare circa il 40% del proprio fabbisogno di gas dalla russa Gazprom, ma anche ad essere almeno potenzialmente ostaggio, nei propri approvvigionamenti energetici, non unicamente della Russia ma anche dalla leadership politica della Turchia, ritenuta poco affidabile.
In un momento storico in cui crisi climatica, nuova rivoluzione tecnologica e grandi mutamenti geopolitici si sovrappongono, l’Europa tenta di posizionarsi nel ruolo di continente leader del cambiamento. Se riuscirà a farlo in maniera tale da assumere il vantaggio di essere il primo attore della rivoluzione energetica che è probabilmente comunque inevitabile, sarà stata capace di cogliere l’attimo e di trovarsi ad essere, da “vecchio continente” a “continente leader”.
di Paolo Pellegrini