G20: nutrirci tutti, nutrirci meno?

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Nel 1970 il 34% della popolazione mondiale era considerato malnutrito. Nel 2008 la stessa percentuale è scesa al 17%. La produzione agricola negli ultimi 15 anni è cresciuta ad un tasso doppio rispetto alla crescita della popolazione. Insomma, l’umanità non ha mai prodotto così tanto cibo come nella nostra epoca. E ci sono delle conseguenze.

1,3 i miliardi di tonnellate di cibo sprecato ogni anno, 800 milioni di persone malnutrite – erano 1 miliardo nel 1990 – che si potrebbero nutrire con questa stessa quantità di scarti e 1,2 le tonnellate di alimenti che si stima domanderemo da qui al 2023.

Queste le spaventose cifre rese note nelle previsioni agricole per il periodo 2014- 2023 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), per quantificare la portata di una piaga profonda qual è l’insicurezza alimentare.

Sempre un documento FAO analizza come le più diffuse tecniche di allevamento e lo spreco di cibo incidano anche sull’ambiente circostante e sulle risorse naturali, innescando un ciclo di causa- effetto cui spesso rimaniamo indifferenti. Produzioni diffuse e intensive, oltre che aumentare l’impiego di acque sotterranee o superficiali e la deforestazione, favoriscono le dinamiche del cambio climatico e di conseguenza amplificano la perdita di biodiversità ed il deterioramento dell’ambiente.

Sebbene eradicare la fame a livello globale, insieme a migliorare la nutrizione e promuovere innovative tecniche agricole, rappresenti uno dei passi fissati dalle potenze mondiali per raggiungere l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile entro il 2030, poche azioni sono state realmente intraprese sul piano politico. Uno studio pubblicato da Chatham House, oltre ad evidenziare con chiarezza lo stretto legame tra settore alimentare – in particolare l’allevamento di bestiame e la produzione di latticini – e l’impatto del riscaldamento globale, sottolinea il vuoto politico e di confronto in cui questo fenomeno aleggia.

I governi nazionali sarebbero consapevoli che una più efficace riduzione delle emissioni di Co2 si otterrebbe solamente incidendo sulla domanda di generi alimentari, promuovendo il cambiamento nelle abitudini nutrizionali globali o almeno un più moderato e consapevole consumo, ma ancora una volta la strategia e il timing politico prevalgono.

L’intrusione governativa nelle abitudini alimentari dei consumatori attraverso campagne di sensibilizzazione o azioni di mitigazione nazionali, transnazionali o globali, verrebbe vista di cattivo occhio, generando inimicizie non solo nel settore privato, ma anche in quello pubblico, alienando elettorato e sostenitori.

La conseguenza? Una spirale negativa in cui all’immobilità statale seguono un gap di conoscenza ed un ritardo nell’adottare uno stile di vita più moderato, in cui il consumo di alimenti e la loro produzione viene bilanciato da educazione, informazione, progresso tecnologico e ricerca scientifica.

Questo va a sommarsi poi agli scetticismi riguardo l’occorrenza del riscaldamento globale e alla natura umana, che ci porta a scegliere di cosa nutrirci in base a considerazioni estetiche più che etiche. Solo dopo aver soddisfatto preferenze e gusto, pensiamo a prezzo e salute, trascurando ogni considerazione di lungo periodo, come la sicurezza ed il benessere delle generazioni presenti e future.

Il G20 di Istanbul si è celebrato in vista di una crescita esponenziale della popolazione mondiale, che secondo quanto prospettato, dovrebbe toccare i 9 miliardi di persone nel 2050. Prendiamo allora le cifre iniziali, moltiplichiamole tra loro, sommiamole alle catastrofi naturali e politiche in cui siamo quotidianamente, spiacevolmente immersi. Ogni risultato urlerà che i tempi sono maturi, che anzi siamo ormai in un incontenibile ritardo.

Già altre volte ci siamo riscoperti esseri resilienti, capaci di adattarci al mutamento, ma sempre nella misura in cui ci è stato garantito un diritto ad essere informati e ad essere guidati da politiche responsabili e trasparenti. È ora che le potenze mondiali svolgano la funzione di governo che compete loro, che agiscano per l’interesse comune ed il bene sociale, diversamente il cambiamento non ci verrà suggerito dall’alto ma direttamente imposto dalle contingenza.

di Marzia Scopelliti