Al momento, non esiste caso internazionale che susciti una così fervida, in alcuni casi feroce, risposta nel resto del mondo come il conflitto israelo-palestinese.
Nel corso della stagione estiva non c’è stato movimento, in questa terra, che non sia stato minuziosamente osservato e documentato da parte dell’opinione pubblica mondiale. Dalle poderose manifestazioni nelle grandi città europee contrarie al conflitto, alla campagna di boicottaggio sui prodotti di fabbricazione israeliana o di grosse multinazionali considerate “complici” (perlopiù grosse firme americane ed europee), fino alla mole impressionante d’immagini, dati, statistiche, slogan, riflessioni, prodotti al momento, sull’evolversi del conflitto e poi diffuse, sui social media. Per non parlare del materiale prodotto sulla base di reazioni a caldo, al conflitto stesso, come la compagnia di contro-boicotaggio ai prodotti israeliani in cui sarcasticamente i boicottanti vengono chiamati ad una maggiore coerenza, e a spegnere del tutto, il proprio computer a causa delle componenti informatiche di fabbricazione e ideazione israeliana.
Le disparate, numerose e spesso imprevedibili reazioni al conflitto sono diventate una questione internazionale (in alcuni casi interna, a cominciare dai timori delle comunità ebraiche europee, che nel mare magnum delle proteste anti sioniste trovino sfogo frange antisemite pronte ad attaccare la comunità) al pari del conflitto vero e proprio e dossier a riguardo, adornano le scrivanie di Presidenti e Ministri di mezzo mondo, forse in dose ancora maggiore a quelli inerenti la guerra vera e propria.
La massiccia esposizione mediatica della questione israelo-palestinese non è certo la novità di questa recente escalation. L’operazione Piombo Fuso del 2009, simile, quasi speculare a quella attuale, il conflitto tra Israele e Hezbollah, le due intifade, fino a risalire alle guerre tra Israele e le coalizioni di Stati arabi, hanno sempre avuto un’attenzione particolare da parte delle opinioni pubbliche mondiali.
L’importanza attribuita al conflitto israelo-palestinese potrebbe dunque essere una sorta di sedimentazione della memoria collettiva, dove l’interesse verso l’attuale escalation si aggiunge a quello manifestato per la miriade di eventi passati. Eppure l’opinione pubblica di solito tende, col passare del tempo, a disinteressarsi al conflitto, o a considerarlo endemico, un elemento naturale nel mondo in cui si vive, e come si può ben immagine ciò che viene considerato “routine” non fa’ notizia. Quanti tra gli attivisti internazionali dell’ultima ora, sono al corrente delle cruciali elezioni in Afghanistan avvenute ad Aprile e della contemporanea, e inquietante, avanzata militare dei talebani? Ebbene la questione israelo-palestine è ben più vecchia del conflitto afghano, cominciata sessant’anni prima (quasi un secolo, se si vuole tener conto delle lotte tra ebrei e arabi durante il mandato britannico in Palestina e antecedenti alla dichiarazione dello Stato ebraico). Un’ulteriore differenza col teatro afghano, che, nel bene e nel male, sta evolvendosi, mai come oggi la situazione tra israeliani e palestinesi pare cristallizzata. Sia Hamas, sia Israele, sono consapevoli che i combattimenti attuali non porteranno a particolari mutamenti nel conflitto. Anzi, il loro intervento è proprio la prova di una situazione di stallo dove entrambi i contendenti si sentono chiamati a ribadire il loro status, per mezzo delle armi. Hamas ne ha bisogno per riconsolidare la sua leadership nella “resistenza palestinese”. Il LIKUD, partito a capo dell’attuale governo israeliano, ha bisogno della linea dura per ribadire la sua politica basata sulla sicurezza ad ogni costo.
Molti potrebbero allora pensare che la ragione stia piuttosto nei tragici numeri della guerra e, in particolare, nelle migliaia di morti e di feriti tra i civili palestinesi, ragione principale delle mobilitazioni nelle piazze delle più grandi città del mondo.
Senza voler nulla togliere alla tragicità della situazione di chi vive a Gaza, basta, tuttavia, spostarsi di poco più a Nord, in Siria, per imbattersi in un death toll tristemente più elevato (l’ordine qui è di centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati: un paese per metà ormai evacuato dal teatro dei combattimenti tra il regime di Assad e il multiforme fronte dei ribelli, con l’Isis che nel frattempo combatte contro entrambi).
Inesorabilmente, il teorico del complotto potrebbe suggerire una non meglio specificata manovra dei media per catalizzare l’opinione pubblica su questo specifico conflitto. Indipendentemente dal fatto che uno creda o meno, alle capacità dei media, di “creare l’opinione”, non sembra essere decisamente questo il caso, in quanto la questione israelo-palestinese, è forse la sola al mondo a essere costantemente seguita anche quando non ci sono escalation in corso e, di conseguenza, i media non sono presenti in massa a documentarne i fatti.
Per esclusione si potrebbe dedurre che la sovra esposizione del conflitto e la massiccia copertura mediatica, spesso e volentieri considerata comunque insufficiente, è la diretta conseguenza dell’enorme interesse delle singole persone sul tema stesso.
Da dove ha origine questo interesse?
Se probabilmente non ci sono ragioni oggettive legate alla dinamica stessa dei fatti, se ne può dedurre che sta tutto nella scelta particolare dei singoli individui.
La sola, agghiacciante, spiegazione, è che ciò che accade in Palestina è così tanto seguito perché alla gente piace seguirlo, e per quanto si possa giustamente considerare disgustosa l’idea di associare gli orrori di una guerra all’apprezzamento di pasciuti spettatori distanti dal conflitto, non si può non pensare che i più, seguono questa guerra, come una sorta di serie televisiva, dove le parti in causa sono personaggi verso i quali si può provare più o meno simpatia.
La veemenza delle posizioni prese da chi segue il conflitto è difatti, più simile a chi è appena uscito da un cinema piuttosto di chi sta leggendo una notizia di cronaca estera. Romanzare guerre e fatti di sangue non è di certo un fenomeno particolare, la letteratura occidentale ha avuto inizio dall’opera epica di Omero sulla guerra di Troia.
La guerra in Palestina invece sembra non aver bisogno di aiuti da parte dell’arte per riuscire a catturare così tanto interesse. Ogni guerra tende, purtroppo, a farsi romanzo e quella in Palestina a quanto pare sembra avere caratteristiche uniche che rendono la sua storia più popolare delle altre (una possibile applicazione della “teoria della scimmia instancabile” applicata alle faccende internazionali. Dal disordine dell’anarchia internazionale che certo non risponde a criteri di “popolarità”, ecco apparire una questione che monopolizza l’attenzione delle opinioni pubbliche del resto del Mondo).
Andando a sbirciare tra le miriadi di posizioni prese riguardo il conflitto, ci si rende conto che nella mente degli esseri umani del 2014 esistono un’infinità di israeliani e palestinesi completamente diversi tra di loro. Gli israeliani possono essere visti come guardiani della modernità contro la barbarie o, partendo dalla stessa visione di Israele “bastione dell’Occidente”, come una propaggine dell’imperialismo e dell’arroganza occidentale verso le popolazioni di altre culture. L’abissale differenziale tecnologico tra l’esercito israeliano e la milizia di Hamas può essere fonte di elogio a sostegno di Israele oppure di biasimo nei suoi riguardi, perché combattere non a “armi pari” può essere considerato scorretto, se non immorale (come sottolineato dal filosofo Vattimo quando sostenne, scatenando enormi polemiche, che l’Europa era tenuta a rifornire militarmente Hamas).
I palestinesi dal canto loro possono essere visti come eroici guerriglieri e partigiani o spietati tagliagole che se non fanno stragi, è solo perché Israele si guarda bene dal permettere che prendano armi adatte per compierle. Gaza spesso viene definita “sotto assedio”, ma per altri invece è Israele ad esserlo, circondata da paesi considerati ostili nei suoi confronti.
Queste sono solo un pugno di visioni in merito al conflitto, le più note, forse banali, ma la visione specifica di chi sullo schermo guarda i combattimenti a Gaza è simile a eroi contro assassini, buoni contro cattivi, santi contro demoni, soldati contro terroristi, martiri contro infedeli. Sempre più raro che chi segue il conflitto rifletta sul fatto che, a prendere parte allo stesso, sono uomini e donne che sostanzialmente la parte non se la sono scelta, ma si ritrovano sul palco loro malgrado.
Certamente il conflitto in Palestina è complicato, e continua a esserlo sempre più come un vitigno che col passare del tempo intreccia in maniera sempre più contorta i propri rami. La difficoltà sempre crescente della questione porta a una ricchezza di possibili interpretazioni e, per paradosso, invoglia chi la segue a prendersene una, propria o presa in prestito da qualcun altro, magari famoso e influente, piuttosto che provare a dipanare la matassa che si trova di fronte. Romanzare interiormente la guerra è facile, da’ consolazione e soddisfazione e spesso fa’ sentire meglio dal punto di vista morale (perché ovviamente si andrà a sostenere il bianco, il buono, e, di conseguenza, ci si sentirà un po’ più buoni a propria volta).
Molti esponenti pubblici lo sanno, fiutandone l’affare. Cosa potrebbe accomunare Giuliano Ferrara, direttore de il Foglio, e “O’ Zulù” (Luca Persico all’anagrafe), frontman dei 99 Posse, rispettivamente pro Israele e pro Palestina? Il fatto che probabilmente, se fossero lontani da sguardi indiscreti, si concederebbero un bel brindisi ad ogni nuova bomba su Gaza o a un razzo Qassam che riesce a superare l’Iron Dome e a colpire una casa israeliana. Un attivismo debitamente pubblicizzato porta parecchia fama in aggiunta alla propria opera professionale, ed ecco Ferrara ringalluzzito e tornato alla ribalta con le sue fiaccolate a sostegno del diritto alla difesa di Israele in un clima di “progressivo isolamento ideologico e sentimentale di Israele e degli ebrei nell’opinione di massa in Europa” da una parte, e O’ Zulù dall’altra che apparentemente si lamenta di come la denuncia politica dei crimini sionisti contro i palestinesi in Italia sia ormai appannaggio di un gruppo musicale, il suo, naturalmente.
“Opinion matters”, e mai come in questo caso il rapporto tra chi assiste e chi prende parte al conflitto si fa viscerale. Sia Israele, sia Hamas, hanno un disperato bisogno di legittimazione internazionale, in un contesto sempre più caotico e instabile quale il Medio Oriente. Gerusalemme vuole togliersi la nomea di paese aggressivo e colonialista che si sta cucendo dopo i trionfi contro le coalizioni di paesi arabi vecchi ormai di trent’anni. A Gaza invece Hamas cerca di staccarsi definitivamente dall’associazione a organizzazione terrorista sancita da Europa e Stati Uniti per farsi riconoscere come nuovo interlocutore politico per i palestinesi al posto dell’ormai screditata, dai palestinesi stessi, Al-Fatah.
Ci potrebbero quindi essere le condizioni perché le spinte verso la pace invocate da milioni di voci sparse nel mondo possano realmente avere effetto, influenzando i rispettivi governi a spingere israeliani e palestinesi verso la ragionevolezza.
Purtroppo, una visione sempre più scenica del conflitto sta portando a un rapporto simbiotico tra la radicalizzazione delle posizioni delle parti in causa e la radicalizzazione di chi sostiene una delle due parti. Oggi, più che “sostenere la pace”, si parla di “sostenere Israele” o “sostenere la resistenza palestinese di Hamas”, senza se e senza ma, fino a una non meglio precisata vittoria finale.
Un conflitto ha maggiori probabilità di essere idealizzato e spettacolarizzato tanto più è lontano nel tempo e nello spazio.
Il risultato è che i decisori politici, per calcolo politico o reale convinzione si lasciano prendere dalla foga di piazza. Un’Europa dove un deputato francese, Jacques Renaud, dichiara i morti palestinesi come “carne halal”, e un deputato britannico, George Galloway, dichiara la città presso cui è stato eletto, Bradford, “Israel free-zone” (abitanti compresi), non può certo considerarsi affidabile nel moderare eventuali trattative di pace (cosa che, in sua vece, sta stoicamente facendo da solo l’Egitto del discusso Al-Sisi).
Un’ultima peculiarità che rende il conflitto israelo-palestinese tanto popolare alle masse è proprio quella che riguarda solo gli sventurati abitanti di un fazzoletto di terra grosso quanto la Campania. Un conflitto ha maggiori probabilità di essere idealizzato e spettacolarizzato tanto più è lontano nel tempo e nello spazio. Solo nel corso del Novecento gli stati hanno compreso il potere dell’idealizzazione, cercando di sfruttare la propaganda per ottenere lo stesso effetto tra i cittadini e i soldati direttamente impegnati in guerra, col solo risultato, tuttavia, di confermare il fatto che si può vivere il conflitto come un’epica soltanto quando il fischio delle bombe che si ascolta è il sonoro di un filmato e non reale. Per tale ragione, i filmati di propaganda durante la seconda guerra mondiale oltre a dare sempre risultati incoraggianti dal fronte, si premunivano di rappresentare il luogo degli scontri come un posto lontano, se non un vero e proprio non luogo. Questo fattore, seppur in forma meno pervasiva, è ripreso dai media attuali. Ai tempi delle guerre civili jugoslave mai i Balcani apparivano come lontani per gli italiani che seguivano un conflitto a pochi chilometri di distanza con gli stessi mezzi e la stessa mentalità di un qualsiasi conflitto che sarebbe potuto dall’altra parte del Mondo (tornando al conflitto israelo-palestinese, è preoccupante come nel nostro paese sembra che si ignori come la guerra di cui tanto si parla si trova sulle rive dello stesso mare su cui ci affacciamo anche noi).
Omero, il precursore dell’epica di guerra, cantava di un conflitto la cui memoria era tanto lontana da essere confusa con la leggenda. Al giorno d’oggi, abbiamo circa una decina di milioni di essere umani coinvolti direttamente nel conflitto israelo-palestinese a fronte di circa sette miliardi di spettatori, i quali hanno una piuttosto solida certezza che rispetto al conflitto resteranno nient’altro che spettatori, concedendosi dunque il diritto di parlare e stra parlare quanto più gli aggrada sui fatti che avvengono in Palestina.
Poiché questi sono i tempi non del villaggio, ma dell’arena globale, esattamente come i sanguinari spettatori romani degli antichi anfiteatri, ciò che arriva in Palestina al centro degli occhi puntati dal resto del mondo sono perlopiù strepiti e urla di chi, più o meno sfacciatamente, vuole che lo spettacolo continui, e poco importa se la sceneggiatura del più grande evento mediatico di quest’anno viene scritta passo per passo col sangue.
Mirko Annunziata