Le esternalità derivanti dal cambiamento climatico avranno un impatto forte e durevole sullo scenario geopolitico internazionale. Comprenderne le origini e prevederne i costi è conditio sine qua non per superare quello che gli psicologi chiamano “sconto iperbolico”, ovvero la tendenza a considerare il futuro meno tangibile e cogente del presente, e a subordinare la tutela del patrimonio biosferico ai compensi materiali di breve termine.
Attraverso una serie di quattro pubblicazioni, ci proponiamo di fare chiarezza su un argomento molto dibattuto e poco compreso, evocando scenari futuri e futuribili in grado d’illustrare l’impatto che i fenomeni geofisici possono avere sullo sviluppo delle società umane.
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Siamo infine giunti al termine del nostro vagare attraverso le lande geopolitiche del cambiamento climatico. L’intento dichiarato era quello d’illustrare, con parole chiare, l’essenza di quei fenomeni naturali che sono cagione o parte integrante del cambiamento climatico, come l’effetto serra, il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello degli oceani, la deforestazione, la perdita di biodiversità o il diffondersi di eventi meteorologici imprevedibili e instabili. Per ognuno di questi fenomeni, ne abbiamo poi tratteggiato, con cautela e accortezza, le conseguenze sul piano geopolitico, nella speranza che i lettori si convincessero dell’impatto spesso drammatico che i mutamenti degli equilibri biosferici hanno sull’uomo e sulle sue costruzioni sociali.
In quest’ultima parte della serie affronteremo un tema delicato. Dapprima daremo voce a quanti, tra i più degni d’attenzione, si sono espressi sull’argomento, senza negare uno spazio ai cosiddetti “negazionisti climatici”. In secondo luogo, riepilogheremo brevemente l’ormai lunga lista di accordi, trattati e dichiarazioni d’intenti siglate in materia da Stati sovrani e organizzazioni internazionali, delineando quindi i contorni di una politica del cambiamento climatico, descritta come “inconcludente” e “frustrante” da larga parte dei commentatori.
Oltre al dibattito scientifico ortodosso, condotto nel rispetto dei tradizionali canoni scientifici, sono sorte nel tempo posizioni estreme e polarizzate, riflesso di un sostanziale scetticismo in merito alle tematiche del cambiamento climatico, o di un radicalismo che si fa portavoce di una visione più drastica e a tratti catastrofica. Tra i primi, annoveriamo il lavoro di Fred Singer e Dennis Avery, per i quali “il riscaldamento odierno è modesto e non è provocato dall’uomo” (S. Fred Singer e Dennis T. Avery, Unstoppable Global Warming, Rowman and Littlefield, New York 2007).
Non c’è nulla di nuovo nel mutamento delle temperature atmosferiche. Il lavoro dei geologi documenta con dovizia un ciclo moderato e irregolare di cambiamenti climatici causato da variazioni nell’attività delle macchie solari. In questo momento – sostengono Singer e Avery – ci troviamo sul finire della fase temperata del ciclo e dovremmo preoccuparci, in realtà, di un’imminente era glaciale. Questa posizione, sebbene poggi su considerazioni veritiere, trascura un dato fondamentale: le attuali condizioni dell’atmosfera terrestre hanno un parallelo (prei)storico solo con ere geologiche lontanissime, caratterizzate da fenomeni geofisici e atmosferici di estrema gravità che rispondono a dinamiche uniche e irripetibili.
Martin McKee identifica sei tattiche utilizzate sovente dai negazionisti: descrivere un consenso come una cospirazione; mettere in campo pseudoesperti; scegliere le prove in maniera selettiva per supportare le proprie tesi; stabilire standard impossibili da rispettare per i propri oppositori e cambiare le regole del gioco qualora questi arrivino con le prove richieste; distorcere deliberatamente le tesi scientifiche dominanti; far passare l’incertezza scientifica per infondatezza. Curioso come quest’analisi possa applicarsi anche a quanti si ostinano a mettere in dubbio la validità dei vaccini e più in generale a molti movimenti populisti.
Sul versante opposto, si collocano i radicali, o catastrofisti, che considerano l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) un’organizzazione irresoluta e conservatrice. Tra questi, lo scienziato britannico James Lovelock ha messo in campo un’analisi previsionale di singolare drammaticità, asserendo che se continuiamo a bruciare combustibili fossili, la Terra “rischia sempre più di giungere a uno stato di sterilità in cui pochi di noi possono sopravvivere” e che il cambiamento climatico “potrebbe quasi cancellare gli esseri umani dalla Terra” (James Lovelock, The Vanishing Face of Gaia, Penguin, London 2010). Il riscaldamento globale – suggerisce Lovelock – segue delle logiche non lineari ed è suscettibile di produrre improvvise e drammatiche variazioni negli ecosistemi terrestri. Dobbiamo diffidare dei modelli matematici e della “buona scienza”, che tende a nascondere le sue implicazioni più pericolose.
Neppure gli accordi internazionali più ambiziosi o le tecnologie più innovative possono ormai invertire i processi in atto. Devastanti e drammatici fenomeni di siccità renderanno gran parte del pianeta inabitabile e l’umanità sarà ammassata in “oasi continentali” temperate, come la Siberia o la Scandinavia. È chiaro che le posizioni dei catastrofisti, sebbene abbiano influenzato la cinematografia recente – 2012, The Day After Tomorrow – restano voci isolate e minoritarie. Ciò non toglie che rappresentino un monito per agire, soprattutto in considerazione della solidità dei loro basamenti concettuali.
Fino agli anni Sessanta, la tutela dell’ambiente era considerata materia riservata alla giurisdizione interna degli Stati. Da allora, è maturata in seno alla comunità internazionale la consapevolezza che le attività lesive dell’ambiente poste in essere da uno Stato tendono a ripercuotersi sull’integrità del sistema nel suo complesso, e che solo tramite un’azione sinergica si può dare risposta a problemi ambientali che coinvolgono tutti, indiscriminatamente. In campo consuetudinario, sono sorti nel tempo alcuni principi cardine che hanno guidato a fasi alterne il comportamento degli Stati in materia di tutela ambientale, specie nei loro rapporti di vicinato.
Tra questi principi rileviamo il divieto di inquinamento transfrontaliero, l’obbligo di cooperazione interstatale nel campo dello sviluppo sostenibile, l’obbligo di prevenzione, che trova nell’irreversibilità di molti danni ambientali le ragioni della sua formazione, il principio di precauzione, nell’ipotesi che non vi sia unità di vedute nella comunità scientifica circa i rischi connessi ad una certa attività, il principio “polluter pays principle”, da cui discende una responsabilità in capo allo Stato per i danni inflitti e l’obbligo di risarcimento, e il principio dello sviluppo sostenibile, strettamente legato alla tutela dei diritti umani e al tema dello sviluppo economico.
Nell’ambito del diritto convenzionale, la Conferenza di Stoccolma del 1972 ha costituito l’origine stessa del diritto internazionale in materia di tutela ambientale, dando peraltro adito alla conclusione di numerosi trattati multilaterali mirati a minimizzare i rischi ambientali maggiori, come la Convenzione sull’inquinamento atmosferico a lunga distanza del 1979, la Convenzione per la protezione della fascia di ozono del 1985 e il Protocollo addizionale di Madrid del 1987, volto alla riduzione del 50% delle emissioni di gas serra in dieci anni. La Conferenza di Stoccolma del 1972, oltre a dare il là alla protezione dell’ambiente nella sfera del diritto internazionale, si è conclusa con l’istituzione dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), a dimostrazione di come anche in ambito ONU s’iniziasse a profondere l’impegno dovuto (qui la dichiarazione conclusiva della Conferenza).
Una seconda tappa fondamentale nel processo di salvaguardia della biosfera terrestre è la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e sullo sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, incubata per oltre due anni e svoltasi in un grande fermento collettivo. Gli organi della conferenza di Rio hanno prodotto tre importanti documenti – la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo; l’Agenda XXI e la Dichiarazione di principi per la conservazione e lo sviluppo sostenibile delle foreste – siglato la Convenzione-quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC) per la progressiva riduzione delle emissioni di gas serra, e individuato due princìpi fondamentali per regolare il comportamento degli Stati: la necessità di uno sviluppo sostenibile che guardi alle esigenze delle generazioni future e la responsabilità comune ma differenziata tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo (PVS).
La genericità delle disposizioni fornite dalla Convenzione sui cambiamenti climatici del 1992 – motivata dalla riottosità e dallo scetticismo di alcuni dei firmatari – ha reso necessaria l’elaborazione di alcuni protocolli aggiuntivi, tra cui l’ormai tristemente noto Protocollo di Kyoto del 1997, ratificato soltanto nel 2004 ed entrato in vigore nel 2005 senza la partecipazione degli Stati Uniti, principale responsabile dell’emissione di gas serra nell’atmosfera. Obiettivo dichiarato del Protocollo era la riduzione dell’emissione di gas inquinanti del 5% nel quinquennio 2008-2012. Il mancato raggiungimento delle quote individuate ha reso necessaria la stipula di un nuovo accordo vincolante e più efficace che sostituisse il Protocollo di Kyoto, ma la riluttanza dei Paesi in via di sviluppo e delle economie più industrializzate – Stati Uniti in primis – ha ostacolato ogni nuovo tentativo di istituzionalizzare la tutela dell’ambiente a livello internazionale.
Solo nel dicembre 2015, con gli Accordi di Parigi, si è infine giunti a un nuovo e ambizioso accordo globale sul clima. Firmato da 196 Paesi, tra cui Stati Uniti e Cina, la Conferenza delle Nazioni Unite sul “climate change” di Parigi si è prefissa un obiettivo di lunghissimo periodo, ovvero il contenimento del riscaldamento terrestre al di sotto dei 2°C entro fine secolo. Un primo bilancio dei risultati è previsto per il 2023 e, successivamente, i piani nazionali saranno verificati ogni 5 anni con lo scopo di fissare obiettivi più ambiziosi.
Gli Accordi di Parigi – favoriti dall’Enciclica Laudato sì di Papa Francesco del maggio 2015 – ancorché rappresentino lo sforzo finora più imponente compiuto per sistematizzare la questione, normare in linea chiara e definitiva il comportamento degli Stati e indirizzare lo sviluppo dei principali sistemi economici industriali, hanno incontrato sul proprio cammino un intralcio che nessuno aveva previsto: la rinascita dei populismi. Donald Trump, eletto Presidente degli Stati Uniti nel 2016, ha ritirato il Paese dagli Accordi, compromettendone l’intero impianto e dando peraltro spago al negazionismo climatico, che con sforzi incalcolabili si era finalmente riusciti ad arginare.
Il futuro appare indecifrabile anche agli occhi dei più avveduti. La Cina, che ha ribadito la volontà di rispettare le disposizioni di Parigi, ha dato prova di grande maturità, e molti nutrono ora la speranza che nel 2020 Donald Trump perda le elezioni a favore di un democratico incline a fare marcia indietro e aderire nuovamente agli Accordi. Alle incertezze sul piano politico si aggiungono le incognite sul fronte tecnologico. Le tecnologie partorite dalle menti dell’energia rinnovabile si fanno sempre più valide e sempre meno costose, e le recenti sperimentazioni condotte in Francia per saggiare le potenzialità della fusione nucleare – progetto ITER – lasciano presagire un futuro certamente più roseo. Ammesso e non concesso che i partigiani dello “sconto iperbolico” non giochino qualche nuovo scherzo e che non sia ormai troppo tardi per salvare il pianeta.
Di Marco Cantarelli e Francesco Balucani