Dopo quasi 20 anni di guerra, il 29 febbraio 2020 nei pressi di Doha (Qatar), gli Stati Uniti e i Talebani hanno firmato un accordo di pace che potrebbe portare al ritiro delle truppe americane dal territorio afghano nel giro di 14 mesi, oltre a una sostanziale apertura del dialogo tra i talebani e Ashraf Ghani, attuale presidente del governo di Kabul, che si è molto speso per porre fine ad uno dei conflitti più cruenti e longevi del secolo.
Prima di Doha per l’Afghanistan, Astana per la Siria
Così come accaduto per gli accordi di Astana (Kazakistan) – volti a una de-escalation della violenza in alcune zone calde della Siria e promossi, a partire dal 2016, dalle diplomazie di Russia, Turchia e Iran – ancora una volta il tavolo delle trattative viene approntato in territori diversi da quelli direttamente interessanti dal conflitto, scelta che potrebbe avere ricadute politiche non indifferenti sugli equilibri di potere nella regione.
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La scelta del Kazakistan, affatto arbitraria, fu allora motivata dai legami che il Paese intrattiene con ciascuno degli attori coinvolti, a partire proprio dalla Russia, con cui i kazaki intrattengono fruttuosi e pluriennali rapporti politici, economici e militari, per via anche del passato sovietico e di vicinanza geografica.
Per quanto riguarda la Turchia, la vicinanza culturale è stata via via amplificata da plurime occasioni di cooperazione economica e militare, mentre le iniziative di partenariato con l’Iran, si estendono dal Mar Caspio alla ferrovia Kazakistan-Turkmenistan-Iran.
Così come dichiarato dal Rappresentante speciale russo per l’insediamento siriano Alexander Laventriev nel novembre del 2017, in occasione del congresso di riconciliazione nazionale siriana svoltosi a Sochi (Russia), la scelta di organizzare tali eventi al di fuori dei paesi direttamente coinvolti dai conflitti è motivata, almeno ufficialmente, dall’intenzione di garantire al meglio la sicurezza delle parti contraenti.
Alle origini della guerra in Afghanistan
Il sedicente Emirato islamico dell’Afghanistan (EIA), organizzazione islamista sunnita ufficialmente comparsa nel 1994 all’indomani della guerra civile afghana, è un gruppo fondamentalista nato dalla collaborazione di alcuni studenti delle scuole tradizionaliste islamiche, postosi a capo del governo afghano dal 1996 al 2001.
Internazionalmente disapprovato per l’immorale trattamento dei civili afghani durante i 7 anni di reggenza, con la risoluzione 1333 del dicembre 2000, tale governo venne severamente sanzionato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che lo condannò per il rifugio fornito all’allora leader di Al-Qaeda Osama bin Laden e per l’improprio uso del territorio ai fini dell’addestramento di un esercito terroristico.
All’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle, nell’ottobre 2001, gli Stati Uniti – con il supporto di attori come l’Alleanza afghana del Nord – mossero i primi passi di un’invasione territoriale che perdura da ben 19 anni.
Gli accordi di pace a Doha
Gli accordi siglati a Doha lo scorso 29 febbraio tra Stati Uniti e Talebani (ultimo passaggio di un impegno di negoziazione avviato in Qatar nel 2018) rappresentano il primo, vero passo avanti in dieci anni di sforzi continui per avviare un congiunto processo di pace, che vede contrapporsi gli interessi di U.S.A., Governo Afghano ed EIA.
Per quanto importante, la trattativa appena svoltasi non è tuttavia da considerarsi un accordo di pace compiuto, bensì una inedita “bozza d’intesa” che valica finalmente lo stallo causato dalla lunga indisponibilità dei Talebani a sedersi al tavolo dei colloqui con il governo rivale (considerato illegittimo), e con gli altri mediatori afghani, senza prima ottenere l’impegno americano di ritirare le truppe dal Paese.
Il diplomatico Zalmay Khalilzad e la schiera di negoziatori americani suoi collaboratori, hanno lavorato per più di un mese nello Stato del Golfo del Qatar, tentando di convincere i Talebani a scendere a patti. Eppure, una densa preoccupazione permane circa le ragioni che hanno potuto aver spinto i Talebani a firmare un’intesa da essi descritta come una “vittoria” sui social media.
C’è poi chi teme che gli Stati Uniti stiano usando l’accordo come copertura per abbandonare un campo di guerra definito dal presidente Trump “immotivatamente dispendioso”, soprattutto in prospettiva delle imminenti elezioni presidenziali.
Portare a termine il ritiro delle truppe dal Medio Oriente – obiettivo perseguito dal suo predecessore Obama e tuttavia, su consiglio degli advisor militari, mai finalizzato – è stato fin dall’inizio uno dei punti cardine della campagna elettorale del presidente Donald Trump, soprattutto alla luce del vasto consenso del pubblico statunitense sulla necessità di porre fine alla guerra in Afghanistan.
Dopo aver optato per un potenziamento della presenza militare nella regione allo scopo di dissuadere l’Iran dal perseguire una politica di potenza, concludere il ritiro delle truppe da una regione, che Trump ha sempre definito “un completo disastro” ed uno “spreco di miliardi” (che potrebbero invece essere investiti negli Stati Uniti), diverrebbe infatti uno dei suoi maggiori punti di forza elettorali nella corsa alla rielezione.
Principali minacce alle trattative
A pochi giorni dall’accordo di Doha, è stato il comandante degli Stati Uniti per il Medio Oriente e l’Afghanistan Frank McKenzie a denunciare i Talebani per gli attacchi lanciati a conclusione della settimana di cessate il fuoco che ha preceduto la firma. “Non sono [attacchi] diretti contro le forze della coalizione né si verificano nei centri delle città […] ma si stanno verificando, e non sono coerenti con un processo di prosecuzione della pace né con gli impegni assunti con l’accordo negoziato”.
Il generale ha inoltre sottolineato che, se le condizioni sul campo dovessero mutare, il ritiro delle truppe statunitensi potrebbe subire variazioni o addirittura arrestarsi. Secondo quanto riportato dal Guardian, un allegato segreto all’accordo di Doha, mostrato ai membri del Congresso ma non al pubblico, riporterebbe il tipo di attacchi proibiti durante il periodo di ritiro delle truppe, tra cui figurano gli assalti alle truppe statunitensi in ritirata.
Le resistenze del generale McKenzie rispetto ad una repentina e sostanziale riduzione dell’impronta americana sul territorio afghano si basano inoltre sui dubbi circa la prevista rottura dei legami tra i Talebani e al-Qaeda, dei quali non si intravedono ancora segni.
Accanto alle preoccupazioni circa il rispetto delle condizioni necessarie alla ritirata americana, sulle sorti degli accordi incombono le difficoltà di procedere con i colloqui intra-afghani.
I dialoghi tra i Talebani e i rappresentanti del governo, che dovevano iniziare la scorsa settimana con un incontro (poi annullato) ad Oslo, si sono complicati a causa di una continua disputa sul risultato delle elezioni presidenziali dell’anno scorso.
Mai come oggi il governo di Kabul è infatti a rischio di implosione all’ombra del dissidio sui i risultati delle passate elezioni presidenziali, delle quali entrambi i candidati – Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah – continuano a proclamarsi vincitori.
A causa del rifiuto dei Talebani al confronto diretto, nessun rappresentante del governo afghano aveva inoltre preso parte al processo diplomatico. Ma oltre che da tale assenza, l’avanzamento dei colloqui di pace era stato inizialmente minacciato da alcuni punti dell’accordo, che prevedevano la liberazione di 5000 detenuti talebani dalle carceri di Kabul.
Il presidente afghano, a poche ore dai negoziati, aveva tuttavia rilanciato che non fosse compito degli americani decidere delle sorti dei prigionieri fondamentalisti detenuti nelle carceri statali, dalla cui liberazione dipendeva la disponibilità dei Talebani a negoziare con il governo afghano.
La sera di martedì 10, Ghani ha però proceduto con la firma del decreto che acconsente al rilascio dei prigionieri, eliminando il principale ostacolo ai colloqui intra-afghani. Secondo il portavoce del presidente, il governo rilascerà i prigionieri in modo graduale, a partire da 1.500 – liberati lo scorso sabato 14 marzo – per poi continuare con 500 ogni due settimane, con l’avanzare delle trattative.
Luci della ribalta sul Qatar
La scelta di avviare i negoziati di pace proprio a Doha è legittimata dalla pregressa istituzione, nel 2013, di un ufficio diplomatico e politico talebano sul suolo del piccolo ma prominente Stato del Golfo. L’ufficio, preventivamente approvato da Washington e Kabul, nasceva allo scopo di agevolare i negoziati di pace tra le fazioni contraenti e di aprire il dialogo tra il sedicente Emirato Islamico Afghano e molti paesi e organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU, interessati allo spegnimento delle tensioni in Afghanistan.
Seppur il Qatar non abbia riconosciuto il regime talebano dal 1996 al 2001, a differenza di Arabia Saudita e Turchia, venne tuttavia preferito dai Talebani per la sua neutralità ed il suo temperamento equilibrato, nonché per la posizione mediana ormai da tempo assunta tra la cultura orientale e quella occidente.
Capofila per livelli di sviluppo economico e tecnologico nell’intera area – è il Paese con il più alto reddito pro capite al mondo.
Una ben ponderata campagna diplomatica di rafforzamento del ruolo di mediatore e peacekeeper regionale, lo ha visto coinvolto, spesso come intermediatore, in diverse crisi internazionali (tra cui il conflitto nella regione del Darfur in Sudan e in occasione della spaccatura tra le fazioni palestinesi, Fatah e Hamas) nonché attivo partecipante alle rivolte della Primavera araba, durante le quali sostenne le ribellioni armate in Libia e in Siria.
Non senza critiche, per lo più provenienti dall’immediato vicinato, il Qatar risulta al momento l’unico vero beneficiario dei negoziati di Doha, i quali – nella loro fragilità e nella dubbia natura dei loro obiettivi sommersi – ribadiscono la scelta di designare il governo di Doha principale arbitro del conflitto più duraturo dell’intera storia degli U.S.A.
Di Carmen Perconti