Venti anni fa sarebbe stato impossibile prevedere l’impatto che la Rete – il World Wide Web – avrebbe potuto avere sulla nostra società. In questa sede cercheremo di capire in che direzione stiamo andando e la relazione contraddittoria tra gli Stati-Nazioni e il Web.
In primo luogo bisogna contestualizzare questa grande realtà virtuale la quale è animata da furenti scontri che ogni secondo la agitano e la scuotono.
Basta gettare uno sguardo sulle cosiddette minacce informatiche in tempo reale per rendersi conto di quale febbrile attività di offesa e difesa si agiti subito sotto la superficie, apparentemente statica dei nostri siti internet e dei nostri blog. In questo scenario di guerra aperta i grandi colossi della rete vanno visti come dei veri e propri fortini i quali, se da una parte perseguono i loro interessi personali, dall’altra garantiscono delle zone sicure in cui è possibile scambiare dati, ricchezze e merci senza il costante rischio di subire l’attacco dei predoni informatici.
Un ruolo di tale importanza pone ovviamente tali aziende in competizione con le realtà nazionali, le quali vedono la loro influenza scemare via via che sempre maggiori attività reali dipendono da quanto avviene nel mondo virtuale. Si pensi solo al ruolo sempre crescente che questi colossi informatici (Google, Facebook, Amazon solo per citarne alcuni statunitensi; Alibaba, Tencent, Weibo, per citare invece i “nuovi” colossi cinesi) hanno nella politica, nell’economia e nella gestione di quei dati che fanno da collante fra questi elementi.
Le fortezze informatiche crescono in importanza e sempre più danno vita a vere e proprie nazioni virtuali che scavalcano i confini nazionali e minacciano l’autorità dei governi i quali in più di un’occasione sono costretti a scendere a patti con esse.
Inoltre è evidente come l’accumulo sempre maggiore di potere fornisca un ostacolo concreto alla nascita di nuove realtà informatiche che vengono molto spesso messe davanti ad un bivio: morire prima ancora di emergere oppure sperare di essere comprate dai colossi: un grosso ostacolo all’innovazione e alla differenziazione.
Il dubbio che tale stato di cose rappresenti un ostacolo al progresso è sempre più riconosciuto dai governi. Del resto già nel 2018 venne coniata l’espressione “too big to tech” (parodiando il celebre “too big to fail”) in riferimento al fatto che alcune realtà sarebbero appunto troppo grandi per far progredire la tecnologia, come già osservato nell’Internet Health Report del 2018.
Gli stessi organi indipendenti denunciavano nel 2016 come Google, Baidu, Wechat, Facebook e Amazon controllassero percentuali dei rispettivi mercati tali che il 90% della cosiddetta App economy (cioè tutta quell’economia di rete che richiede l’utilizzo di un servizio web specifico o di una applicazione) fosse nelle mani di questi giganti.
Altra problematica, sempre messa in luce negli stessi anni, è quella relativa alla trasparenza di queste aziende, le quali attraendo sempre maggior potere economico e strategico si collocano sempre più nella condizione di violare o aggirare le norme che potrebbero permettere ai rispettivi governi di tracciare le loro attività.
Si consideri che nella Graduatoria dei diritti Digitali nessuna delle grandi aziende ha superato la soglia del 62% di trasparenza: in altre parole, possono fare molto senza preoccuparsi che qualcuno le giudichi.
Un simile stato di cose ha portato sempre più persone a sbandierare lo spettro di una parola la quale sembra essere l’unica a riuscire a terrorizzare il sistema capitalistico: non Crisi né Recessione bensì: monopolio.
In Europa, una nazione storicamente attenta alla corretta concorrenza commerciale e a quella che può essere riassunta come la competizione fra governi reali e governi virtuali, è sicuramente la Francia. Parigi appena l’anno scorso ha multato Google per un valore di 1 miliardo di euro asserendo che la società avesse violato numerose norme fiscali approfittando, per l’appunto, della natura fumosa e inafferrabile delle attività sul territorio francese.
Un anno prima, sempre la Francia, aveva guidato una commissione europea che aveva multato Google per 2,4 miliardi, “per aver abusato della sua posizione dominante nei sistemi operativi per telefoni cellulari”, in riferimento specifico al sistema pubblicitario AdSense.
Nessuno parlò all’epoca di monopolio ma era evidente che quello specifico timore guidava le azioni dei giudici europei.
In generale l’Unione Europea sembra essere l’unico organismo governativo ad aver opposto da sempre un concreto ostacolo all’egemonia dei colossi digitali e non solo in ambito fiscale e commerciale ma anche per quel concerne la pura diffusione delle informazioni.
Un colpo sicuramente importante fu dato con la nuova direttiva del copyright, la quale, senza entrare nel complesso merito della questione, era pensato per ridurre il ruolo predominante di Google e Youtube nella gestione dei prodotti creativi e al contempo si inseriva in un progetto più ampio e ambizioso: la creazione di un mercato Digitale a guida U.E. e non aziendale.
I primi segnali di tale progetto li abbiamo potuti osservare nella apertura del roaming dati, la sospensione delle norme nazionali per il commercio elettronico e le nuove normative sulla riservatezza. Tutte riforme che hanno influenzato concretamente la nostra vita tanto quanto l’introduzione della piattaforma di “cloud-storage” Google Drive o l’avvento di Facebook, segno che questa battaglia è molto più concreta di quanto molti vogliano pensare.
Osservando in questa ottica quel che sta avvenendo negli Stati Uniti il punto di vista viene ribaltato, e sorge spontaneo il dubbio che Washington si sia mossa in evidente ritardo su di una questione che è sul banco degli imputati da anni nel mondo occidentale.
La notizia di questi giorni è infatti che il Governo statunitense abbia avviato una causa ai danni di Alphabet, la holding che possiede Google e che per sineddoche continueremo a chiamare appunto Google, con l’accusa proprio di monopolio. In altre parole il motore di ricerca escluderebbe intenzionalmente dal sistema gli altri motori di ricerca.
Una parte importante del castello inquisitorio si basa sull’accordo miliardario, ora messo in discussione, fra Google ed un altro gigante, Apple, per il posizionamento del motore di ricerca fra le preferenze del browser proprietario di quest’ultima, Safari.
Dopo questo breve excursus, quali sono i possibili scenari evolutivi della rete nel mondo occidentale? Difficile prevederlo, ma assodato che un cambiamento radicale è in corso e che già dal Russia Gate, Wikileaks e il caso Snowden, è ormai evidente che il virtuale influenza concretamente il reale.
Proviamo a offrire tre possibili sviluppi:
1) Il Campo di Battaglia: in questo primo scenario il sistema infrastrutturale unico di internet come lo intendiamo noi verrebbe a cadere e si imporrebbe il modello di molte “internet”, che è poi la strada verso cui spingono i paesi non democratici del mondo e i quali già di fatto attuano delle politiche atte ad arginare il flusso di dati, con l’intento, per rimanere in metafora, di trasformarli in laghi pressoché chiusi e stagni (due esempi su tutti, la Cina e l’Iran).
2) Il cyberpunk: avverando le previsioni degli scrittori di fantascienza del calibro di Gibson, i colossi basandosi su un dominio de facto dei servizi vincono il braccio di ferro con gli stati nazionali, alienando da essi una serie di servizi che migrano nel privato in blocco, favorendo la scomparsa del cittadino in favore del consumatore/dipendente. Un modello di stato minimo ma in ogni caso non realmente democratico.
3) La Resistenza: gli Stati nazionali democratici riescono a contenere il fenomeno dei colossi della rete, spingendo ad una frammentazione del sistema che resta però coeso. In uno scenario del genere le spinte locali verrebbero favorite e l’innovazione tecnologica trainerebbe i mercati nazionali. Un simile sistema “liberale” necessiterebbe però di un continuo allargamento e le spinte (sempre più aggressive) per demolire sistemi non democratici e liberali di governo sarebbero continue.
Solo l’ultimo caso sarebbe conveniente per l’Europa, ma se c’è una cosa che forse il 2020 ci ha insegnati e di non abbandonarsi all’ottimismo.
di Tanator Tenabaun