Avere paura del proprio governo, della propria polizia, del proprio Stato. Essere in totale balìa di una forza che è al contempo mandante, carnefice e giudice della violenza sui propri cittadini. Siamo entrati in contatto in maniera indiretta con questa sensazione di estrema vulnerabilità con il “caso Regeni” e la strage degli studenti di Iguala in Messico.
Thomas Hobbes aveva postulato la necessità della creazione di uno Stato in qualità di protettore super partes della vita e della sicurezza dei cittadini, in cambio di una rinuncia a porzioni di libertà (limitazione dei diritti) e risorse (tasse). Troppo forte l’anarchia tra i singoli individui nello stato di natura per garantire a tutti la sopravvivenza, lo Stato deve quindi essere dotato di una forza tale da difenderli gli uni dagli altri, permettendo loro di eliminare la paura della violenza da parte del prossimo. Quando però avviene un ribaltamento dei ruoli e lo Stato si trasforma da protettore ad assassino senza dover rispondere a nessuno al di sopra di sé, il cittadino è perduto.
L’enorme attenzione da riservare al caso Regeni non è legata alla morte di un italiano in uno Stato estero – quanti turisti restano accidentalmente uccisi in rapine finite male o incidenti stradali – ma al risveglio della tremenda sensazione di violenza politica impunita connessa a voleri di Stato. Giulio Regeni è stato ucciso da un settore dello Stato egiziano (al cui interno convivono oggi molte realtà) per un motivo politico, per le sue ricerche sui sindacati indipendenti banditi dal governo di Al-Sisi. Questa condizione non è unica né straordinaria al giorno d’oggi. È tristemente esemplare il murales realizzato a Berlino in memoria di Giulio Regeni che recita “Lo hanno ammazzato come un egiziano”. Giulio infatti non è l’unico. Sono numerosi gli egiziani che hanno perso la vita per mano dello Stato, e che per loro sfortuna non hanno la Farnesina in aiuto a mettere pressione al governo del Cairo per ottenere giustizia.
Senza troppi sensi di colpa possiamo affermare che è solo quando la vittima è un connazionale che ci accorgiamo dei livelli di brutalità che ancora oggi uno Stato è in grado di scatenare nei confronti dei suoi oppositori interni. In caso contrario, affinché ci si ponga il problema, la magnitudine della violenza deve raggiungere livelli inauditi.
Così è stato per la strage di Iguala, quando, nel settembre 2014, 43 studenti messicani che facevano parte di un altro gruppo di un centinaio di persone che si stavano dirigendo con un autobus di linea (sequestrato e dirottato) verso Città del Messico per una manifestazione politica, furono rapiti e massacrati dalla polizia locale, con il beneplacito delle forze di sicurezza federale e dello Stato di Guerrero. Come per il caso Regeni, gli studenti messicani sono morti per ragioni politiche, per le loro manifestazioni contro il narcotraffico e la corruzione.
Messico e Egitto sono accomunati (per motivi e storie passate diversissime) da uno stato di ordine e legalità estremamente confusionario, in cui le forze militari pubbliche e quelle private, si sovrappongono in maniera inestricabile a interessi di potere pubblico e privato. Non si tratta di Stati monolitici, ma di organismi di governo in cui convivono interessi contrapposti e frammentati, in Egitto, tra bande armate, scissioni religiose e sacche di ribellione e, in Messico, governo federale, governo locale e narcotrafficanti.
In maniera del tutto identica, il governo egiziano e quello messicano hanno cercato di liquidare in breve le rispettive colpe. A Iguala, dopo soli 5 giorni dalla sparizione degli studenti, il 28 settembre 2014 l’ufficio federale del procuratore generale dello Stato del Guerrero ha fermato 280 membri del corpo di polizia e arrestato 22 di questi in quanto ritenuti coinvolti. Al Cairo, dopo neanche due mesi di investigazioni, il 24 marzo 2016 quattro uomini sono stati uccisi dalla polizia egiziana e successivamente collegati all’omicidio Regeni con tanto di ritrovamento di oggetti personali della vittima. In entrambi i casi si tratta di una giustizia fulminea in Paesi dall’alto tasso di disorganizzazione investigativa che, coincidenza, per questi casi identificano e liquidano i colpevoli a tempo record.
Regeni e gli studenti di Iguala ci insegnano che la verità è dura da scoprire se il mandante è al governo. Le ipotesi si accavallano, gli investigatori si moltiplicano e le piste si perdono.
Ancor più, ci insegnano che l’Italia non può fare più nulla per ottenere giustizia su Giulio Regeni, tanto quanto la comunità internazionale è impotente nei confronti del Messico sulla verità della strage di Iguala. Il sistema-Stato ha sviluppato negli anni un modello di monopolio della violenza e di giurisdizione su uso e abuso di tale violenza che resta inattaccabile dall’esterno.
L’Italia ha ritirato l’ambasciatore dal Cairo, atto diplomatico fortissimo, ma totalmente inefficace in termini di giustizia sul caso Regeni. L’ONU, gli Stati Uniti, l’UE, innumerevoli ONG hanno fatto tutte le interrogazioni possibili al governo messicano di Enrique Peña Nieto e, meno di un mese fa, la commissione internazionale investigativa ha confermato il coinvolgimento del governo dopo un anno di ricerche. Risultato? Reazione aggressiva del governo messicano, commissione internazionale impossibilitata a proseguire oltre e obbligata a lasciare il Paese.
Viviamo in un mondo in transizione, la sensibilità sui diritti umani aumenta e la “responsabilità a proteggere” i civili inermi oltreconfine si sviluppa, ma non sono ancora così forti da sfondare il monopolio che lo Stato esercita all’interno dei suoi confini. Quanto è verosimile aspettarsi che Al-Sisi si presenti alle telecamere con una mano sul cuore ammettendo che Giulio Regeni è morto per mano delle forze armate egiziane? O che Enrique Peña Nieto faccia altrettanto, non solo davanti alla comunità internazionale, ma davanti al proprio elettorato? Che le vittime siano connazionali o stranieri in fondo poco cambia nell’economia del risultato finale: per gli omicidi di Stato nessuna verità, nessuna giustizia.