I rapporti diplomatici tra Mosca e Tel Aviv non sono mai stati semplici ma, con la dissoluzione dell’Urss, l’impostazione pragmatica di entrambi i Paesi ha favorito le relazioni reciproche. Il conflitto siriano e l’instabilità internazionale rimangono fattori importanti per comprendere il rapporto russo-israeliano.
Sebbene l’Unione Sovietica fosse stata uno dei primi Paesi al mondo a riconoscere lo Stato di Israele, nato al termine del mandato inglese, a sua volta esauritosi il 14 maggio del 1948, nel corso della Guerra Fredda le relazioni tra Mosca e Tel Aviv non furono di certo idilliache. La scelta di campo dello Stato ebraico, che rimase fermamente ancorato agli Stati Uniti, divenendone il principale alleato nella regione, non contribuì in alcun modo alla creazione di un solido rapporto con i sovietici. Sovietici che pure avevano svolto un ruolo di non secondaria importanza nel garantire la sopravvivenza di Israele, fornendo al Paese levantino, tramite la Cecoslovacchia, gli armamenti necessari per difendersi dagli arabi nella guerra del 1948-1949.
Fu a partire dal 1953 che si registrò un primo, serio, raffreddamento delle relazioni diplomatiche tra Mosca e Tel Aviv. A causa di un attentato che portò alla morte di tre cittadini sovietici, il governo russo, che riteneva le autorità israeliane responsabili dell’accaduto, decise di allentare il rapporto con queste ultime, salvo poi tornare sui propri passi qualche mese più tardi. Ma nel 1967, allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni, le relazioni tra i due Paesi naufragarono definitivamente. L’Urss, dopotutto, aveva alacremente lavorato per creare un rapporto di fiducia con le nazioni islamiche del Medio Oriente al fine di contrastare l’influenza statunitense nella regione e, considerata la scelta di campo di Tel Aviv, non poté che schierarsi contro Israele.
L’operato dello Stato ebraico fu aspramente criticato dalle autorità sovietiche anche nel corso della Guerra del Kippur (1973) e di quella del Libano (1982) ed un timido riavvicinamento si ebbe soltanto sul finire degli anni Ottanta, con l’arrivo di Gorbačëv al potere.
Il ritorno alla normalità, almeno per quanto riguarda le relazioni formali, si ebbe però nell’ottobre del 1991, a meno di tre mesi dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tel Aviv, poi, riconobbe immediatamente la Federazione Russa come Stato successore dell’Urss, una volta che questa fu disgregata, e durante i primi anni dell’era El’tsin, quando la politica estera del Paese era saldamente nelle mani di Kozyrev e degli occidentalisti, il rapporto con Mosca si fece via via più stretto.
In realtà, le diverse fasi attraversate dalla Russia nei primi dieci anni dalla caduta dell’Urss non consentiranno al Cremlino di instaurare un solido legame con lo Stato ebraico, soprattutto se si tiene conto del fatto che a partire dal secondo mandato di El’tsin, rieletto piuttosto sorprendentemente nel 1996, il dicastero degli Esteri fu posto sotto il controllo di Evgenij Primakov, che diverrà poi anche Primo Ministro.
Egli porrà un termine all’asservimento russo nei confronti dell’occidente e da fine conoscitore del mondo arabo, quale in effetti era, perseguirà, nella regione mediorientale, una politica multivettoriale non particolarmente amichevole nei confronti di Israele.
Ad ogni modo, negli anni immediatamente successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, Mosca e Tel Aviv firmarono diversi importanti accordi che sanzionarono la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. In particolare, è importante sottolineare il trattato di cooperazione economica del 1994, quello di cooperazione tecnico-scientifica sempre del 1994 e, infine, quello relativo alla lotta congiunta contro il crimine organizzato ed il terrorismo internazionale del 1997.
Con l’avvento di Vladimir Putin alla presidenza della Federazione Russa nel 1999, il rapporto tra Mosca e Tel Aviv fu improntato al pragmatismo, visto che la cultura strategica di entrambi i Paesi consentiva alle due cancellerie un discreto spazio di manovra nelle relazioni reciproche. Sebbene esistessero profonde differenze riguardo soprattutto all’impianto valoriale preferito dalle due nazioni, vi erano anche numerosi punti in comune che permettevano ai governi di collaborare laddove esistevano interessi condivisi.
Ciò nel pieno rispetto di quella realpolitik che guidava la politica estera di entrambi. Del resto, sia la Russia che Israele erano accomunati dalla cosiddetta “sindrome da accerchiamento”, cosa che portava ambedue le nazioni a privilegiare una comprensione militaristica del potere che poneva la sicurezza al centro delle dinamiche politiche.
Quando in gioco non vi erano interessi contrastanti, Mosca e Tel Aviv evitarono di criticare l’operato della controparte e, quando furono costrette a prendere posizione, non fecero seguire alcuna azione concreta alle parole di biasimo.
Ne è un chiaro esempio la posizione assunta dal governo guidato da Ariel Sharon in occasione della Seconda Guerra Cecena, quando Israele si astenne dal criticare l’operato della Russia nella regione del Caucaso Settentrionale, creando addirittura un parallelo con la situazione interna del Paese, preda delle lotte dovute alla Seconda Intifada. Allo stesso modo, sebbene Mosca non si sia risparmiata nel biasimare le azioni di Tel Aviv in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, i toni del Cremlino sono sempre apparsi piuttosto morbidi.
Del resto, Mosca è uno dei pochi attori internazionali, e certamente l’unico del Quartetto di Madrid, a mantenere buone relazioni diplomatiche con Hamas. Ciò ha consentito alla Federazione Russa di essere accreditata tra coloro che potrebbero svolgere un ruolo determinante nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
La posizione ufficiale di Mosca rispetto a tale conflitto rispecchia quella delle Nazioni Unite ed in effetti il Cremlino appare l’unico attore in grado di dialogare con tutte le parti coinvolte: l’Autorità Palestinese, Israele e la stessa Hamas.
In più di un’occasione il governo russo avrebbe fatto pressioni sulle autorità di Ramallah e sui militanti dell’organizzazione islamista perché mettessero da parte le acredini che da sempre contraddistinguono il loro rapporto. Agli occhi del Cremlino, la Palestina potrebbe esistere soltanto se le divisioni interne alle varie frange politiche fossero superate e se ai negoziati con Israele partecipassero anche i membri di Hamas. In aggiunta, le politiche adottate dell’amministrazione Trump, che hanno fortemente favorito Israele a dispetto dei rivali palestinesi, hanno contribuito all’aumento dell’influenza russa su questi ultimi, consentendo al Cremlino di giocare un ruolo più importante di quello che avrebbe potuto avere.
A livello sociale, ad ogni modo, esistono legami rilevanti tra la Federazione Russa ed Israele, considerando che con la dissoluzione dell’Urss ben 750.000 cittadini sovietici migrarono verso lo Stato ebraico. Ciò ha consentito un importante avvicinamento culturale delle due nazioni che ha portato ad una maggiore comprensione reciproca, nonostante appaia piuttosto evidente come i possessori della doppia cittadinanza si percepiscano principalmente come israeliani.
Inoltre, secondo i sondaggi, quasi due terzi dell’opinione pubblica russa parrebbe possedere una visione positiva dello Stato ebraico, quota di molto superiore rispetto a quella dei Paesi occidentali, ove meno del 40% della popolazione supporta Tel Aviv.
Per quanto riguarda il comparto economico, le relazioni commerciali tra la Federazione Russa ed Israele sono cresciute enormemente negli ultimi anni, sebbene non rappresentino ancora una quota importante del Pil dei due Stati. Prevedibilmente, Mosca esporta principalmente risorse energetiche ed importa prodotti agricoli.
Tel Aviv sembrerebbe, infatti, aver beneficiato dell’impianto contro-sanzionatorio imposto dalla Federazione nei confronti dei Paesi occidentali per rispondere alle misure economiche che questi ultimi avevano implementato nei suoi confronti in occasione della crisi ucraina iniziata nel 2014. Nell’ultimo decennio, poi, sono stati firmati numerosi accordi di cooperazione in diversi ambiti, come quello aerospaziale del 2011, quello relativo alla tecnologia nucleare del 2013 e quello inerente le nanotecnologie del 2016.
A ciò bisogna aggiungere l’intenzione russa di partecipare con le proprie grandi conglomerate statali allo sfruttamento del giacimento di gas naturale offshore denominato Leviathan. Esso si trova quasi interamente entro le acque territoriali israeliane e potrebbe rivelarsi un fattore utile a diminuire la dipendenza europea dalle risorse energetiche russe, qualora fosse implementato il progetto per la costruzione di una pipeline diretta verso le coste greche. Putin ha mostrato in diverse occasioni il proprio interesse, considerando che, dopotutto, se Gazprom partecipasse allo sfruttamento del giacimento, la Russia vedrebbe ridursi il pericolo di una contrazione della propria presenza nel mercato energetico europeo.
Ma il vero game-changer nelle relazioni tra Mosca e Tel Aviv è stato senza ombra di dubbio il conflitto siriano. Rispondendo positivamente alla richiesta del governo di Damasco, storico alleato della Russia sin dall’epoca sovietica, il Cremlino dette inizio alle operazioni militari in Siria il 30 dicembre del 2015.
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L’intervento della Russia fu determinato da diverse motivazioni ma fu reso possibile, tra le altre cose, anche dal disimpegno degli Stati Uniti dalla regione mediorientale avviato dall’amministrazione Obama e proseguito da quelle successive. Mosca non voleva lasciarsi sfuggire la possibilità di riempire il vuoto lasciato da Washington che comunque, ed è bene ricordarlo, rimane l’attore esterno maggiormente rilevante per gli equilibri regionali.
Quasi immediatamente si rese necessario intessere una collaborazione più approfondita con le forze armate israeliane al fine di evitare incidenti che potessero coinvolgere i rispettivi eserciti. Il fatto che Tel Aviv si fosse astenuta dal condannare le azioni della Russia in Ucraina rese piuttosto semplici le cose, in un momento in cui Mosca si trovava decisamente isolata a livello internazionale.
Nell’autunno del 2015 fu dunque creato un “deconflicting mechanism” che consentiva all’aviazione di Israele di condurre attacchi mirati alle posizioni di Hezbollah. L’organizzazione sciita libanese, infatti, era attiva nel conflitto civile siriano e combatteva al fianco dell’esercito di Damasco, supportando dunque il governo di Assad grazie anche alla copertura delle forze aeree della Federazione Russa. Le autorità di Tel Aviv avevano la necessità di contenere l’avanzata delle milizie sciite spalleggiate dall’Iran, soprattutto nelle aree della Siria che confinavano con lo Stato ebraico.
Vista la collaborazione di Mosca e Teheran nel combattere le opposizioni al governo di Damasco, era assolutamente necessario un certo grado di coordinamento con l’IDF, che aveva obiettivi del tutto divergenti. L’erroneo abbattimento di un Il-20 russo da parte della contraerea siriana a seguito di un attacco israeliano, verificatosi nel 2018, fu in effetti imputato dal Cremlino al governo di Tel Aviv, cosa che creò un repentino raffreddamento dei rapporti diplomatici. Ciò a dimostrazione della necessità, sentita da entrambi gli attori, di mantenere aperto e funzionate un affidabile canale di comunicazione. A seguito del controverso episodio, Mosca minacciò di fornire all’esercito siriano il sistema di difesa missilistico antiaereo S-300, che avrebbe reso la vita difficile ai caccia israeliani. Soltanto grazie ad un meeting tra Putin e Netanyahu la frattura fu ricomposta.
L’incontro tra i due leader portò ad un cambio di marcia nel rapporto tra i due Paesi, almeno per quanto riguarda lo scenario siriano. Israele non protestò per le operazioni militari dell’esercito di Damasco nei pressi del proprio confine e, al contempo, Mosca riconobbe, diversamente da quanto aveva fatto fino a quel momento, la necessità che tutti gli attori esterni presenti sul suolo siriano (e non espressamente invitati dal governo) tornassero entro il proprio territorio.
Il repentino cambiamento del Cremlino fu determinato da diversi fattori. Se la Russia aveva sempre voluto mantenere buone relazioni con tutti i Paesi della regione al fine di aumentare la propria influenza, le autorità di Mosca temevano che un conflitto aperto tra Israele ed Iran in Siria avrebbe portato ad un intervento statunitense.
Qualora tale eventualità si fosse verificata, i russi avrebbero rischiato di perdere tutto quanto avevano guadagnato, a livello politico e militare, dall’intervento cominciato il 30 settembre del 2015. In aggiunta, con la fine delle ostilità in vista, l’Iran e la Russia cominciarono a competere per accaparrarsi i migliori contratti per la ricostruzione della Siria.
Per non parlare poi del timore del Cremlino di perdere influenza su Damasco, ovviamente in favore di Teheran. Vi era dunque una notevole convergenza di interessi tra Mosca e Tel Aviv in questo ambito. Era piuttosto importante, però, che la Federazione riuscisse a mantenere una posizione equilibrata in quanto, se le forze appoggiate dall’Iran si fossero effettivamente ritirate prima della fine della guerra, la Russia sarebbe stata costretta a dispiegare i propri fanti. Il problema, in questo caso, era che l’opinione pubblica russa non avrebbe mai accettato un impegno di questo tipo, essendo divenuta allergica, dopo le guerre cecene, allo stillicidio di vite umane generato da un conflitto.
L’idea di Mosca, dunque, sarebbe stata quella di creare una zona cuscinetto, lungo il confine tra Siria ed Israele, profonda un centinaio di kilometri entro la quale soltanto l’esercito siriano avrebbe potuto operare. Tenendo così Hezbollah e le altre milizie spalleggiate dall’Iran a debita distanza dallo Stato ebraico. Tel Aviv, però, non ha accettato tale soluzione. Appare interessante notare come, oltre alle questioni puramente strategiche, la Russia consideri Israele un ponte verso gli Stati Uniti, con i quali, al momento, le relazioni sono piuttosto complesse. Nel 2021, l’insediamento dell’amministrazione guidata da Joe Biden a Washington e l’instabile situazione politica di Israele hanno ulteriormente complicato le cose. Il nuovo governo statunitense non ha mai fatto mistero di ritenere Mosca una minaccia e non pare intenzionato a cooperare con il Cremlino, a differenza di quanto, almeno nominalmente, era stato dichiarato in più occasioni da Donald Trump. Tel Aviv, che non può (e non vuole) rinunciare alla storica alleanza con Washington, potrebbe trovarsi in serio imbarazzo nel collaborare con Mosca. Soprattutto se le tensioni tra USA e Russia dovessero ulteriormente esacerbarsi. D’altra parte, l’incertezza rispetto al futuro politico di Israele pone dubbi simili riguardo al prosieguo della cooperazione con la Federazione.
La recente recrudescenza delle ostilità tra l’IDF e le milizie palestinesi, che ha portato alla morte di numerosi civili in Cisgiordania e lungo la Striscia di Gaza, non ha scatenato l’indignazione delle autorità di Mosca. Nel pieno rispetto del pragmatismo che ha contraddistinto le relazioni russo-israeliane dal momento della dissoluzione dell’Urss, e tenendo conto dello storico rapporto che lega il Cremlino all’Autorità Palestinese ed ai militanti di Hamas, il governo russo ha mantenuto una postura neutrale.
La Federazione si è limitata a condannare la violenza sui civili ed ha fatto appello alla necessità di riprendere i negoziati il prima possibile. Del resto, visti gli interessi in gioco, appare assai difficile pensare che Mosca, ormai priva della cornice ideologica che aveva contraddistinto l’epoca sovietica, possa discostarsi da una posizione che le consente di essere, finalmente, un attore rilevante nella regione mediorientale.
Per approfondire:
D. Lapierre, L. Collins, Gerusalemme! Gerusalemme!, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1972.
R. O. Freedman, “Russia and Israel under Yeltsin”, in Israel Studies, 3(1), 140-169, 1998. DOI: http://www.jstor.org/stable/30246799
S. Blank, “Russia’s New Presence in the Middle East”, in American Foreign Policy Interest, National Committee of American Foreign Policy, 2015. DOI: 10.1080/10803920.2015.1038926.
Di: Riccardo Allegri