L’abilità di Puigdemont e gli errori di Rajoy hanno accreditato la narrazione del referendum catalano come un esperimento di democrazia e autodeterminazione, ma la realtà è più complessa (come dimostrato dalle manifestazioni unioniste di Domenica 8 Ottobre) e una dichiarazione unilaterale di indipendenza, oltre a violare l’ordine costituzionale spagnolo, non sarebbe poi così democratica come alcuni sostengono. Vediamo perchè.
La crisi politica e il corto circuito giuridico che scuotono la Catalogna sembrano ben lungi da una soluzione, e il rapido susseguirsi di notizie apre ogni giorno nuovi scenari e interrogativi. La vittoria indipendentista nel referendum del 1° ottobre e le ultime dichiarazioni del governo locale rendono una possibilità concreta la secessione della Catalogna (sotto la sovranità spagnola da oltre cinque secoli). Tuttavia, il referendum del 1° ottobre non sembra idoneo a fondare un’ipotetica indipendenza della regione, né sul piano giuridico né su un piano latu sensu “democratico”. Da un punto di vista legale, le ragioni dello Stato spagnolo sono inattaccabili.
Eppure, politicamente il governo di Mariano Rajoy (Partito Popolare) è uscito malissimo dal referendum, perseverando in un approccio intransigente che, in particolare con riferimento agli eventi del 1° ottobre, si è rivelato non solo discutibile ma anche politicamente masochistico.
In una situazione come quella della vigilia del referendum, ormai nessuna delle opzioni del governo nazionale costituiva una soluzione ottimale. C’è però da chiedersi se non sarebbe stato comunque più saggio per Madrid consentire che il referendum si svolgesse normalmente, limitandosi a ribadire, come già fatto in precedenza, l’illegalità del voto e dunque la sua mancanza di valore giuridico per l’ordinamento spagnolo. Questo avrebbe forse solo rimandato lo scontro frontale, ma probabilmente evitato gli incidenti e le violenze di domenica, boomerang mediatico e inaccettabili sotto il profilo delle modalità utilizzate. Si è trattato di un formidabile regalo al governo catalano, che – sull’onda emotiva – è apparso dalla parte del giusto e in difesa degli oppressi (e pazienza se la faccenda è molto più complessa: se l’opinione pubblica ragionasse in modo perfettamente razionale, molte piattaforme elettorali di successo rimarrebbero senza voti, o quasi).
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Qui non si tratta di legalità, ma di buon senso e di tattica: difficile comprendere quale vantaggio sostanziale lo Stato spagnolo abbia tratto dall’approccio seguito nella giornata del referendum, che tra l’altro non ha impedito la votazione ma ha portato solo alla chiusura di una minoranza di seggi.
I primi atti delle autorità centrali spagnole, con la (prevedibile) apertura di procedimenti penali nei confronti di ufficiali dei Mossos d’Esquadra (a cominciare dal comandante Josep Lluis Trapero, indagato per sedizione) e le dure dichiarazioni del primo ministro e di re Filippo VI Di Borbone, sono state ineccepibili dal punto di vista della difesa della legalità, ma non hanno certo rappresentato segnali di apertura. Con il suo discorso del 3 ottobre, il sovrano spagnolo ha interpretato il suo ruolo di simbolo e custode dell’unità nazionale, richiamando la legalità costituzionale quale fondamento di ogni democrazia liberale. Tuttavia, ragionando su un piano di opportunità politica, ci si domanda se le – tardive – dichiarazioni della Corona non abbiano rappresentato un’occasione perduta. Se fin dai mesi precedenti al referendum il sovrano si fosse adoperato per favorire il negoziato e veicolare un’immagine più conciliante, forse gli eventi avrebbero potuto prendere una piega diversa. A questo punto, non lo sapremo mai.
La linea della fermezza portata avanti da Madrid conserva ancora margini di successo, in particolare dopo l’imponente manifestazione unionista svoltasi a Barcellona ieri, 8 ottobre, che ha portato alla luce quella parte ampia ma finora invisibile della società civile catalana che non vuole la secessione. Si tratta però di una scommessa estremamente rischiosa, le cui chance di vittoria dipendono in misura consistente dagli errori altrui.
Al di là dalla concreta gestione della crisi, la vicenda catalana ci pone davanti ad una domanda fondamentale per la filosofia politica e il diritto internazionale:
accettiamo o no il principio per cui ogni comunità dovrebbe avere diritto all’“autodeterminazione interna”?
Nel diritto internazionale l’“autodeterminazione esterna” è il diritto ad autodeterminarsi di ogni popolo soggetto ad un dominio straniero o vittima di discriminazioni e/o violazioni dei diritti fondamentali. L’“autodeterminazione interna” invece è l’autodeterminazione di un popolo che non è soggetto ad un dominio straniero né privato dei diritti fondamentali, ma tuttavia per qualche motivo non si riconosce e non si sente rappresentato dal proprio Stato/Governo; il caso catalano rientra in questa seconda ipotesi.
Piaccia o no, salvo evoluzioni future (per le quali il caso catalano potrebbe divenire un precedente), il diritto internazionale prevede il diritto all’“autodeterminazione esterna”, ma non riconosce un diritto all’“autodeterminazione interna”, per il timore che ciò ponga a rischio l’integrità territoriale degli Stati (la cui tutela costituisce un principio cardine dell’ordinamento internazionale). Se ciò sia giusto o meno, potrebbe essere uno dei dilemmi politici e giuridici più rilevanti dei prossimi anni.
Se si sposta l’analisi sul piano dell’ordinamento giuridico spagnolo, la reazione del governo centrale alle iniziative della Generalitat catalana è stata ed è lecita, fatti salvi gli usi eccessivi della forza (che, al netto delle fake news circolate a riguardo, durante il referendum sembrano esserci stati, tanto che la stessa magistratura spagnola ha avviato indagini). Come chiarito dalla Corte costituzionale, un referendum sull’indipendenza non è ammesso dalla Costituzione. Sul piano giuridico, ciò che è avvenuto domenica 1° ottobre è, per molti versi, un tentativo di colpo di Stato (e pazienza se nel linguaggio comune i colpi di Stato li chiamiamo in altri modi, quando ci piacciono: “gloriosa rivoluzione”, “primavera”, ecc.). Le reazioni del governo spagnolo, pur opinabili sul piano politico, sono state legittime e finora persino contenute rispetto a quanto possibile ai sensi delle leggi vigenti: lo dimostra il fatto che oggi si discuta della possibilità per l’esecutivo centrale di invocare l’articolo 155 della Costituzione (che consente al governo di privare una Comunità autonoma delle proprie prerogative nei casi in cui essa “non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna”). Mandare la Guardia Civil e la Policia nacional a chiudere i seggi è stato un atto legittimo sul piano giuridico. Del resto, ogni Stato tende naturalmente a tutelare la sua integrità territoriale e ha il diritto di farlo. Parlare di “negazione della democrazia” o “dello Stato di diritto” non ha senso, posto che la democrazia liberale si fonda non soltanto sulla volontà del popolo ma anche sul rispetto delle norme che il popolo, democraticamente, si è dato (la Costituzione spagnola è stata approvata anche dalla Catalogna). E lo Stato di diritto, per sua natura, si fonda sul primato della legge.
C’è poi una constatazione finale, che, anche a prescindere da ogni altra considerazione, impedisce di ritenere che il referendum possa fondare in qualsiasi modo un’eventuale indipendenza della Catalogna, anche riferendosi ad un non ben definito “principio democratico” prescindente dal diritto vigente. Il 1° ottobre in Catalogna si è votato in alcuni seggi, altri sono stati chiusi dalle forze dell’ordine, la gente spesso si è stampata le schede a casa (!), non era previsto un quorum e, alla luce della situazione, è verosimile pensare che gli elettori contrari all’indipendenza non siano andati a votare. Le garanzie circa la regolarità del voto e dello spoglio sono, quantomeno, scarse. Stando agli stessi dati comunicati dalla Generalitat, i votanti sono stati il 42 per cento degli aventi diritto; di questi, il 90 per cento avrebbe votato per l’indipendenza. Dunque, dando per buoni i dati diffusi dagli stessi indipendentisti, per l’indipendenza si è espresso il 37,8 per cento dell’elettorato complessivo della Catalogna. Un po’ poco per parlare, al di là di ogni dubbio, di chiara maggioranza popolare a sostegno della secessione. La manifestazione per l’unità della Spagna svoltasi Domenica 8 Ottobre a Barcellona, con centinaia di migliaia di persone (secondo alcuni dati, quasi un milione) ha reso del tutto evidente la complessità della vicenda catalana, incrinando la mitologica narrazione indipendentista basata sul consenso da parte della grande maggioranza dei catalani, assestando alla piattaforma secessionista un primo colpo mediatico, che sinora il governo Rajoy era stato incapace di lanciare.
“Maggioranza silenziosa” unionista? Impossibile dirlo. Ciò che è sicuro è che anche i sostenitori dell’unità spagnola sono tanti e, in una logica democratica, dovrebbero essere ascoltati. Attualmente nessuno può sapere con certezza quale sia la volontà della maggioranza della popolazione catalana. Entrambe le tesi richiedono sostanzialmente un atto di fede, e cercano di accreditarsi sfruttando il fattore mediatico. Così è, se vi pare, insomma. Ma, proprio per questo, se domani l’assemblea parlamentare catalana dichiarasse unilateralmente l’indipendenza della regione, non si tratterebbe di una realizzazione dei principi democratici, ma solo di un gigantesco pasticcio, politico e giuridico. In termini legali, di un vero e proprio colpo di Stato, camuffato da esperimento democratico. E sarebbero guai. Per tutti.
Di Marco Ferruglio