Di Leonardo Stiz
I segnali preoccupanti che il nostro Pianeta ci sta lanciando attraverso i cambiamenti climatici registrati dagli scienziati non devono farci stare tranquilli. La necessità di azioni concrete per salvaguardare il nostro habitat è impellente. Ma come far coincidere tutto ciò con sviluppo e benessere? Una soluzione potrebbe esistere, e non è fermare la crescita economica.
Se c’è un punto su cui tutti tra economisti, ambientalisti, scienziati e politici concordano, è che ci troviamo di fronte a un grosso problema: il nostro pianeta non sarà in grado di sostenere ancora a lungo i nostri attuali stili di vita e i nostri consumi se le tecnologie non evolveranno. Lo sanno anche i potenti della Terra, di recente riunitisi a Parigi in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, per tentare di arginare il minaccioso problema del surriscaldamento globale. Tra tutte le soluzioni proposte da diversi pensatori internazionali, una in particolare spesso attira attenzione e interessi: dobbiamo smettere di crescere. Anzi, dobbiamo decrescere. Dito dunque puntato contro la crescita economica e il paradigma secondo cui questa sia necessaria per assicurare il nostro benessere. Dito puntato contro i consumi, contro le “logiche del PIL” e, per i più audaci, contro il modello capitalistico. Ma è possibile un mondo senza crescita? E soprattutto, ci conviene?
[ecko_alert color=”grey”]Leggi anche Che cosa è la decrescita felice[/ecko_alert]
Tale argomento è solitamente affrontato con un approccio di natura economica: siamo condizionati da un sistema che da un lato ci spinge a consumare sempre di più, perché, come si dice, bisogna far girare l’economia, dall’altro fa leva su ciò per indurre bisogni che altrimenti non avremmo, favorendo consumi scellerati e dannosi. Non si mette in dubbio che da questo punto di vista esista un grosso problema. Ma il meccanismo per cui ciò conduce a puntare grossolanamente il dito contro la “crescita economica”, suggerendo la decrescita come panacea di questi e altri mali, forse è frutto di errori di valutazione.
Alcune considerazioni – riassunte con grande efficacia da Eduardo Porter in un recente articolo sul New York Times – suggeriscono infatti di affrontare la questione da un diverso punto di vista. Per iniziare è bene mettere un attimo da parte i giudizi sul consumismo moderno e capire qual è l’essenza del concetto di crescita economica. In un sistema fisicamente chiuso con un ammontare di risorse finito e un numero di individui che devono sopravvivere, ci sono due possibili classi di comportamenti: da una parte gli individui possono spartire le risorse, con la naturale conseguenza di conflitti per l’accaparramento delle stesse. In tali conflitti i più deboli soccombono e finiscono per non avere nulla. Dall’altra parte gli individui si possono organizzare, dividendosi i compiti e utilizzando le risorse a disposizione per produrne altre, in modo tale che non si esauriscano e che tutti possano assicurarsi un approvvigionamento continuo.
Ci saranno ricchi e poveri ma, potenzialmente, nessuno avrà zero e i conflitti saranno ridotti. Non è un caso che nel tempo la crescita economica sia stato un importantissimo fattore che ha permesso di raggiungere traguardi quali la riduzione della povertà mondiale, la fine della schiavitù, l’aumento del livello delle pari opportunità, la crescita dell’occupazione femminile, la riduzione delle guerre, e tanto altro. Questo perché un sistema che non cresce, come Porter sottolinea, è un sistema dove ad ogni arricchimento di qualcuno corrisponderà, banalmente, una perdita per qualcun altro. Meccanismo che oltretutto ostacola la democrazia stessa. Un sistema, quindi, dove i forti prevarranno in maniera ancora più netta sui deboli, e dove i conflitti aumenteranno esponenzialmente, sia tra gli individui, sia tra gli Stati. La fine della “crescita” e del capitalismo, volendo essere realisti, non porterebbe ai risultati sperati da chi la sbandiera come unica soluzione. È chiaro che le disuguaglianze non sono state eliminate, e forse mai potranno esserlo, ma non dimentichiamo che viviamo mediamente nel mondo migliore che sia mai esistito.
Se un mondo in decrescita sia tecnicamente possibile non è peraltro ben chiaro. Quel che è certo invece è che noi non lo auspichiamo, anche se non ce ne rendiamo conto.
[ecko_alert color=”orange”]Ma a questo punto il problema resta: come ci salviamo da noi stessi?[/ecko_alert]
Come possiamo rendere compatibili allo stesso tempo crescita, controllo sui cambiamenti climatici e consumi sostenibili? Una risposta esiste, ed arriva da un lavoro di ricerca internazionale preparato l’anno scorso per le Nazioni Unite, e spiegato da un altro articolo di Porter. Per combattere il riscaldamento globale, la nostra sfida non deve concentrarsi sulla crescita, ma sulle energie. La sfida è quella di sviluppare tecnologie che permettano di sostenere lo sviluppo e i consumi con energie pulite, assicurando il progresso della nostra società unitamente a una maggior sicurezza ambientale. Dal report risulta che tutto ciò è ragionevolmente possibile, anche se richiederà un “eroico sforzo di collaborazione”.
Il problema è che durante le Conferenze sul clima tenutesi in passato, i vari governi non hanno mai avuto ben chiaro come effettivamente raggiungere i target che sono stati prefissati di volta in volta, tendendo a concentrarsi di più sul litigare su chi fosse responsabile di cosa e quindi su chi dovesse accollarsi il maggior sforzo in termini di riduzione delle emissioni.
Il report è frutto di lavori di ricerca di diversi scienziati internazionali che, in 15 nazioni industrializzate, hanno studiato percorsi tecnologici applicati all’energia che renderebbero possibile una ragionevole crescita e un contenimento dell’aumento delle temperature entro i 2 gradi nel 2050 (obiettivo fissato al Cop21 di Parigi). Per raggiungere tali traguardi, le emissioni di CO2 a metà secolo dovranno ammontare a 1,6 tonnellate all’anno per persona, meno di un terzo dell’attuale media mondiale, e meno di un decimo del livello statunitense. Utilizzando combinazioni di energia nucleare, rinnovabile e fossile, gli esperti hanno elaborato percorsi tecnologici che centrerebbero l’obiettivo.
In Cina però tale percorso è ostacolato dal vasto panorama dell’industria pesante, che permetterebbe di produrre non meno di 3,4 tonnellate annue per persona. Le soluzioni tecnologiche possibili oggi permettono plausibilmente di arrivare a un livello medio di 2,3 tonnellate nel 2050. Gli scienziati affermano però che esistono forti speranze riguardo i progressi tecnologici dei prossimi 15 anni. Questo rende primariamente necessario un cambiamento nelle relazioni diplomatiche tra i Paesi. Gli obiettivi sopraelencati, per essere efficaci, dovranno essere rispettati da tutti. Ciò richiede una peculiare collaborazione tra Stati e organizzazioni internazionali, in un mondo dove alcuni importanti Paesi (come l’India) avocano a sé il “diritto” di inquinare più degli altri per potersi sviluppare e per far fronte all’aumento della popolazione. In più, come dimostra questo rapporto, l’altissimo livello di emissioni dovute alla produzione di Paesi critici (come la Cina), risulterebbe più basso se tale produzione fosse allocata direttamente negli Stati “consumatori”, che spesso coincidono con quelli che hanno più risorse tecnologiche da investire a disposizione (ma, nella maggioranza dei casi, meno risorse energetiche da sfruttare). Fenomeno che ancora chiama in causa grandi responsabilità e specifici accordi e rapporti tra tali Stati.
Il progresso della tecnologia potrebbe salvarci. Ciò non rende meno importante l’immensa responsabilità che oggi grava sulle spalle di noi cittadini, chiamati a consumare meglio, e dei nostri Stati, che devono spingere più in là le frontiere della collaborazione internazionale (unica chiave per la soluzione di grandi problemi strategici globali). Da questo punto di vista i risultati della conferenza di Parigi, da poco conclusasi, sembrano essere abbastanza soddisfacenti, se non altro per la presa d’atto di un problema che va affrontato organicamente. Il testo dell’accordo presentato il 12 dicembre delinea un chiaro percorso per la riduzione delle emissioni, che punta ad un contenimento dell’aumento delle temperature entro i 2 gradi centigradi, e impegna le parti a ridurlo a 1,5 entro fine secolo, grazie a un percorso di revisione degli impegni nazionali atteso ogni 5 anni.
Sono inoltre previste misure che incoraggiano la resilienza e riducendo la vulnerabilità di fronte ai cambiamenti climatici. Riguardo agli aspetti finanziari, è prevista la mobilitazione di un minimo di 100 miliardi di dollari all’anno che i Paesi Industrializzati dovranno destinare ai paesi in via di sviluppo. È bene precisare che tali accordi non hanno validità giuridica, ma solo politica e che non sono previste quindi sanzioni per la loro eventuale violazione; si tratta comunque di un inizio.