Dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con l’Iran, si attende la risposta dei leaders europei: la posta è il futuro delle relazioni commerciali con un Paese OPEC che potrebbe essere irrimediabilmente compromesso dalle sanzioni americane.
Gli Stati Uniti hanno spezzato l’accordo sul nucleare con l’Iran, profondamente voluto da Obama nel 2015. Il Joint Comprehensive Plan of Action era stato siglato dall’Unione Europea e dai P5+1, al fine di spingere l’Iran a rallentare lo sviluppo della sua energia nucleare in cambio di sanzioni più lievi.
Adesso, gli Stati Uniti sono fuori dall’accordo, dopo l’unilaterale decisione di Trump, che introdurrà nuove sanzioni nel Paese.
Anche l’Europa è seriamente colpita dalla scelta del presidente degli Stati Uniti: per via del principio di extra-territorialità, gli USA multeranno anche le aziende non americane, se avranno rapporti commerciali con l’America o se useranno dollari americani per i loro affari.
Evidentemente, l’Europa non può condividere lo strappo di Trump, che comprometterebbe i rapporti commerciali con l’Asia: solo nel 2017, la Germania ha esportato in Iran circa 2.3 miliardi di Euro e la Francia 1.5 miliardi.
Occorre adesso attendere la decisione dei leaders europei, che potrebbero preferire di accettare la decisione di Trump, nonostante le evidenti perdite di natura economica, oppure opporsi per evitare un’escalation in grado di sfociare, tra le altre cose, in seri rischi per la sicurezza nazionale dei Paesi più vicini all’Iran.
Se l’Europa, verosimilmente supportata da Russia e Cina, decidesse di opporsi agli Stati Uniti, si renderebbe necessario l’impiego di una moneta diversa dal dollaro, per via del già citato principio di extra-territorialità. Inoltre, occorrerebbe proteggere le imprese europee dalle sanzioni americane.
Se invece non si riuscisse ad evitare le sanzioni, gli economisti prospettano uno scenario non troppo dissimile da quanto osservato prima dell’accordo voluto da Obama nel 2015.
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I minori ricavi legati al commercio del petrolio porterebbero a una seria svalutazione della moneta iraniana, che ha già perso valore contro il dollaro di quasi tre volte, per via delle recenti turbolenze di queste ultime settimane.
Quanto fin qui esposto significherebbe una maggiore inflazione, al momento pari all’8%, e un fermo vincolo alla crescita del Paese. Infatti, il Fondo Monetario Internazionale prevedeva fino ad adesso una crescita annuale del prodotto interno lordo iraniano pari al 4.3%, che potrebbe crollare se le sanzioni venissero imposte.
Per il resto del mondo, il risultato è chiarissimo: le sanzioni impatterebbero profondamente sulle esportazioni di petrolio e quindi sul prezzo del greggio, che supera già i 70 dollari al barile.
Secondo diversi economisti, l’Iran, che oggi esporta circa 2.5 milioni di barili di petrolio al giorno, potrebbe perdere oltre 500.000 barili al giorno se le sanzioni venissero effettivamente attivate.
Mentre l’oro è stabile a 1.320 dollari l’oncia e il petrolio americano tocca i 70.26 dollari al barile, il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, sta cercando di rafforzare l’accordo con gli altri Paesi. Dopo la visita in Cina, Zarif sarà a Mosca e a Bruxelles nei prossimi giorni, dove si incontrerà con i ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Germania e Francia. Intanto, la Cina ha affermato che continuerà a lavorare per mantenere l’accordo con l’Iran, ma la prossima mossa dev’essere quella dell’Europa.
di Alberto Ferrante
Potete leggere questo articolo grazie alla collaborazione con il magazine online fxempire.it
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