La legge approvata la settimana scorsa dal Knesset legalizza l’occupazione territoriale israeliana e aggiunge un nuovo ostacolo alla two-state-solution, già messa in discussione anche da Donald Trump.
Lunedì scorso, il Parlamento Israeliano (Knesset) ha approvato con 60 voti a favore contro 52 il cosiddetto Regulation Bill proposto nei mesi scorsi dalla coalizione di destra guidata dal Primo ministro Benjamin Netanyahu.
In base a questa legge, circa 4mila insediamenti israeliani costruiti in territorio palestinese, in Cisgiordania, otterranno legittimazione retroattiva purché gli abitanti provino che al momento dell’insediamento non erano “consapevoli” che quella terra fosse di proprietà privata palestinese. Verificato questo requisito – non sono ancora chiare le modalità – gli israeliani otterranno il permesso a rimanere nelle proprie case, mentre i legittimi proprietari palestinesi avranno due possibilità: accettare un lotto di terra alternativo, laddove vi sia questa offerta; oppure accattare una compensazione pecuniaria stabilita da un comitato ad hoc creato dal governo israeliano.
Il Regulation Bill nasce dalla proposta avanzata nei mesi scorsi dal partito di ultra-destra Jewish Home in reazione alla decisione dell’Alta corte di giustizia a favore dello smantellamento di Amona; e la scelta di sottoporre tale questione al voto del Knesset rivela la necessità di Netanyahu di trovare un difficile equilibrio tra pressioni esterne e interne. Da un lato, infatti, il Primo ministro israeliano deve tener conto della comunità internazionale ed evitare politiche che rischino di isolare eccessivamente Israele; dall’altro lato, Netanyahu è alla guida di un governo di coalizione la cui sopravvivenza dipende da partiti di ultra-destra (come appunto il Jewish Home Party), il che costringe il leader israeliano a tenere in debita considerazione le richieste di tali partiti.
Il fatto che la proposta non solo sia stata sottoposta al voto del Knesset, ma abbia ricevuto la maggioranza dei voti, è poi indice di un’altra serie di fattori – interni ed esterni – che caratterizzano ed influenzano oggi la realtà politica israeliana.
Innanzitutto, l’approvazione della legge rivela l’alto grado di influenza che i gruppi di ultra-destra sono riusciti a ritagliarsi nell’attuale quadro politico, dove risultano una forza motrice capace di influenzare leggi e politiche. Strettamente collegata all’ascesa dell’ultra-destra in parlamento, c’è poi quella di gruppi – sia politici che della società civile – dichiaratamente a favore della politica di insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est, che negli ultimi mesi hanno ottenuto non poche vittorie (tra le ultime l’annuncio della prossima costruzione di circa 6mila insediamenti).
Infine, il voto del Knesset conferma la fiducia della destra israeliana di fronte ad un’amministrazione Trump che ha finora adottato una linea molto blanda rispetto all’intera questione degli insediamenti. Dopo il voto di lunedì sera, infatti, l’attuale governo USA si è limitato a fare riferimento a un precedente commento su come gli insediamenti “may not be helpful” nel raggiungere un accordo di pace tra Israele e Palestina. Prima dell’incontro tra Trump e Netanyahu, che si terrà oggi 15 febbraio, la Casa Bianca ha ulteriormente sottolineato come la “soluzione dei due Stati” non sia più un obiettivo prioritario.
Reazioni di ben altra natura sono invece pervenute da parte della comunità internazionale, dell’Autorità Palestinese, e anche da figure di spicco e ONG all’interno di Israele.
Il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha dichiarato la legge una violazione del diritto internazionale, e simili parole sono state usate anche da Federica Mogherini, Alto Rappresentate per gli Affari Esteri dell’UE, la quale ha ricordato la Risoluzione ONU 2334 recentemente adottata a condanna degli insediamenti israeliani.
In linea con la comunità internazionale, è stata anche la risposta di una serie di ONG israeliane (quali Peace Now e Yesh Din) che hanno dichiarato di volersi appellare alla Corte Suprema, e del Procuratore Generale Avichai Mandelblit, il quale ha messo in guardia dall’adozione di una legge che chiaramente viola i diritti palestinesi alla proprietà privata e ha dichiarato il proprio rifiuto a difendere la legge.
Da parte sua, l’OLP ha definito la legge una “legittimazione del furto” che viola il diritto internazionale e pone fine ad ogni (già debole) prospettiva di una two-state solution, e ha dichiarato l’intenzione di appellarsi alla Corte Criminale Internazionale per combattere “l’impunità” di cui Israele sembra godere di fronte allo Statuto di Roma. A complicare il quadro, c’è l’elezione a leader di Hamas di Yahya Sinwar, uno dei fondatori del movimento politico armato e ritenuto dagli analisti una delle personalità più intransigenti della politica palestinese (è stato 20 anni in carcere in Israele: era stato condannato a quattro ergastoli alla fine del 1980).
Dopo il voto di lunedì, rimane da aspettare che si pronunci la Corte Suprema.
di Marta Furlan