Nel mese di ottobre due Stati africani hanno annunciato l’abbandono della Corte Penale Internazionale. I malumori del Continente africano nei confronti della Corte dell’Aja sono conosciuti da tempo, ma i recenti sviluppi potrebbero comprometterne definitivamente l’autorità.
Nessuno Stato ha mai ritirato la propria adesione allo Statuto di Roma, il trattato che governa la Corte Penale Internazionale e che vincola i Paesi che lo hanno ratificato a riconoscerne l’autorità.
Lo scorso 12 ottobre però si è creato un precedente, dato che il parlamento del Burundi ha votato con un’amplissima maggioranza il ritiro dallo Statuto. La decisione è stata presa dopo che le Nazioni Unite e la Corte Penale hanno annunciato l’apertura di diverse indagini sulla situazione vigente nel piccolo Stato africano, dove il Presidente Pierre Nkurunziza avrebbe compiuto atti in violazione dei diritti umani come risposta a delle violente proteste scoppiate dopo l’aver forzato le regole costituzionali per concedersi un terzo mandato.
La vera scossa è però arrivata poco dopo: il 21 ottobre anche il Sud Africa ha fatto sapere, tramite il suo Ministro degli Esteri, di aver inoltrato una lettera al Segretario Generale dell’Onu per comunicare la volontà del Paese di ritirarsi della Corte. E sorprende che l’annuncio arrivi da una democrazia matura, membro dei Brics e del G20, che spesso ha agito come pacificatore regionale, per esempio in Lesotho e Sud Sudan.
La decisione è stata presa a seguito di fatti avvenuti nel 2015, quando il presidente del Sudan Omar Al-Bashir era ospite a Johannesburg per alcuni incontri diplomatici. Al-Bashir è soggetto a due mandati d’arresto internazionali emanati dalla Corte dell’Aja nel 2009 e nel 2010, a seguito dei crimini contro l’umanità commessi in Darfur. Tale mandato obbliga gli Stati membri dello Statuto ad arrestare il soggetto in questione non appena entra nei loro territori, affinché lo stesso possa essere consegnato alla giustizia internazionale. Una Corte sudafricana aveva dunque emesso un ordine di arresto, ma il Presidente sudafricano Jacob Zuma ha permesso che il leader sudanese prendesse l’aereo per tornare in patria.
L’inadempienza del Sud Africa, accusato di proteggere Bashir, è ora sotto esame da parte della magistratura di Johannesburg, e non sorprende che l’annuncio del ritiro sia arrivato poco prima dell’attesa sentenza. “Non poter invitare sul nostro territorio anche ipotetici ribelli o accusati di gravi crimini limita le nostre attività diplomatiche come Paese attivo nella mediazione e nei tavoli di pace”, è stato dichiarato dal Ministro della Giustizia ai giornalisti.
Infine è stata la volta del Gambia, che ha annunciato circa una settimana dopo il Sud Africa, l’inizio delle procedure per l’addio allo Statuto di Roma. È curioso notare che in questo caso il Procuratore Generale della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda è proprio di nazionalità gambiana.
Anche Uhuru Kenyatta, Presidente del Kenya, è finito nel mirino della Corte Penale quando, nel 2014, è stato accusato di aver scatenato violenze post elettorali dove 1200 persone di determinati gruppi etnici sarebbero state uccise. Il 28 gennaio 2016 poi si è aperto all’Aja il processo a Laurent Gbagbo, ex leader della Costa D’Avorio, imputato assieme alla moglie per crimini contro l’umanità. Pur di non riconoscere il risultato elettorale del 2010, avrebbe compiuto azioni efferate contro gli oppositori politici, portando il Paese sull’orlo della guerra civile.
Numerosi Stati africani infine, sebbene non coinvolti, hanno dimostrato di non avere intenzione di collaborare con una Corte che sembrerebbe incriminare solo leader provenienti dal continente africano.
L’apertura manifesta della crisi è avvenuta il 31 gennaio 2016 quando, solo tre giorni dopo l’inizio del processo all’ex leader ivoriano Gbagbo, durante un vertice dell’Unione Africana, il Presidente Kenyatta ha avanzato a tutti i membri la proposta di uscire in blocco dalla Corte Penale. Tale invito è stato accolto con favore, soprattutto da Zimbawe, Uganda, Rwanda, Senegal e Costa D’Avorio, oltre che da quei paesi (Burundi, Sud Africa e Gambia) che di recente hanno deciso di dar seguito alla proposta iniziando le procedure d’uscita.
Ma come mai l’Africa ha un problema con la Corte Penale? Le ragioni sono soprattutto di opportunità politica (ed economica). Inoltre, in un continente dove il colonialismo ha lasciato grandi ferite, sono certo comprensibili certe radicalizzazioni identitarie in contrapposizione di istituzioni internazionali create dagli ex colonizzatori, anche se con le migliori intenzioni (il Procuratore è africano).
L’apertura del processo a Gbagbo, le varie accuse di crimini contro l’umanità e il mandato contro Al-Bashir, hanno fatto tremare diversi leader africani a capo di regimi dittatoriali o semi dittatoriali, che vedono nella Corte una minaccia al loro potere.
Tuttavia l’Aja trova ostacoli anche con Stati democratici, come ad esempio il Sud Africa o il Senegal, che preferiscono non collaborare per via della fratellanza – e vicinanza geografica – con gli altri Paesi africani, ma soprattutto per non danneggiare gli interessi economici e diplomatici continentali.
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Secondo alcuni l’Aja starebbe dedicando alle vicende africane un’attenzione spropositata ignorando ciò che accade altrove
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Non sono rare infatti le accuse di discriminazione, secondo le quali l’Aja starebbe dedicando alle vicende africane un’attenzione spropositata ignorando ciò che accade altrove, anche se la Corte, per la verità, ha indagini in corso su fatti accaduti in Palestina, Afghanistan e Sud America.
Cosa può fare la Corte? Poco purtroppo. Essa è uno strumento di giustizia internazionale, che inevitabilmente funziona secondo meccanismi diversi da quelli delle corti nazionali. Lo Statuto di Roma è un manifesto della cultura dello Stato di Diritto e questo, per alcuni, può essere scomodo. La soluzione dunque può essere trovata solo a livello diplomatico.
Esiste qualche proposta alternativa di riforma della Corte Penale Internazionale. Si tratta però di soluzioni improbabili, difficili e non strutturate: la relazione tra l’Africa e la Corte rimane una questione aperta e problematica.
di Leonardo Stiz