Come la storia recente di una desertica regione africana può spiegare i rapporti tra le grandi potenze: parliamo del Sahara Occidentale e del suo stato di perenne indeterminatezza politica.
È bastata una visita del Segretario Generale dell’ONU a inizio Marzo in un campo di rifugiati sahrawi a Tindouf, in Algeria, per aggiungere sale su una ferita aperta da oltre 40 anni. Non è stata tanto la visita in sé, bensì i termini adoperati dal rappresentante ONU, che ha affermato di compatire la rabbia del popolo sahrawi, vittima di “occupazione” da parte del Marocco, che controlla buona parte della regione del Sahara Occidentale. Un termine, quello di “occupazione”, che di certo il governo di Rabat non ha digerito, tanto da causare l’annullamento della visita dello stesso Ban Ki-moon nel Paese prevista a luglio 2016.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di Sahara Occidentale? Perché la questione sahrawi sta così tanto a cuore sia al Governo marocchino che all’ONU? Come mai il problema, da oltre 40 anni, non trova soluzione?
Per rispondere a queste domande bisognerebbe uscire dall’ottica del mero “conflitto regionale”, e iniziare ad analizzare la questione da punto di vista di “dominio d’influenza”. Tuttavia, per avere una visione più chiara del problema vi è la necessità di capire come è nata la questione del Sahara Occidentale.
Il Sahara Occidentale è un territorio molto vasto della costa occidentale dell’Africa, confinante con Marocco, Mauritania e Algeria. Questo territorio ha un passato coloniale: era un protettorato Spagnolo dai confini non ben delineati. Il Sultanato marocchino ha sempre supportato il popolo del deserto nella lotta contro il dominio spagnolo, sebbene il Marocco finì – all’inizio del XX secolo, dopo il trattato di Fès prima, e la convenzione di Madrid poi – sotto protettorato francese, mentre il Sahara Occidentale rimase spagnolo. De facto, la situazione si perpetuò fino all’indipendenza marocchina (1956), mentre il Sahara Occidentale rimase sotto il controllo di Madrid.
La questione Sahariana ha sempre appassionato ed influenzato tutta la vita politica marocchina fungendo, tra le altre cose, da buon collante per l’unità nazionale. Il Marocco e la Mauritania – già indipendenti – decisero di “reintegrare” il territorio sotto la loro giurisdizione chiedendo un parere consultivo alla Corte di Giustizia Internazionale sulla sovranità del Sahara Occidentale. La Corte comunicò il suo parere nel 1975, affermando il diritto dell’autodeterminazione del popolo sahrawi.
La questione s’inasprisce dopo la partenza dell’ultimo soldato spagnolo nel 1976. Con la guerra del Sahara Occidentale (1975-1991) migliaia di sahrawi fuggendo dall’avanzata marocchina e mauritana trovarono rifugio nella regione di Tindouf, in Algeria, luogo questo che diventerà la base del Fronte Polisario (abbreviazione di Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro), movimento politico indipendentista del Sahara Occidentale.
Il 27 Febbraio 1976 viene proclamata la Repubblica Araba Democratica dei Sahrawi. Le prime offensive degli indipendentisti sono rivolte principalmente contro la Mauritania, che per varie ragioni risulta più debole del suo vicino marocchino. Dopo più di tre anni di guerra, nel 1979, il governo mauritano si vide costretto a rinunciare alle pretese sulle aree meridionali della regione, accettando di siglare un trattato di pace. Il Marocco tuttavia combatté per un altro decennio, in un conflitto che spinse il governo di Rabat a innalzare diversi muri di sabbia lunghi oltre 2700 km in varie parti del deserto, in modo da delimitare e proteggere un’area che copre quasi l’85% del territorio del Sahara Occidentale.
Questa situazione si protrarrà fino al 1991, quando verrà implementata la missione ONU chiamata MINURSO, in seguito alla Risoluzione 690 del Consiglio di Sicurezza che stabilì un cessate il fuoco che avesse come obiettivo primario quello di permettere un referendum sull’autodeterminazione al popolo sahrawi e del suo territorio. L’impasse dura fino ad oggi.
Tornando quindi alle domande di partenza, per capire la vera natura del problema, si dovrebbe iniziare ad analizzare la situazione da un punto di vista di lotta per l’egemonia territoriale tra Stati Uniti e il binomio franco-britannico.
È chiaro che il XX secolo è stato caratterizzato dalla lotta che gli Stati Uniti hanno combattuto (anche) all’imperialismo europeo, per via delle idee di Franklin D. Roosevelt e Thomas W. Wilson. Conosciuti per la loro simpatia e per le loro aspirazioni a condurre i popoli all’indipendenza, i due Presidenti USA non erano contrari al fatto che i Paesi arabi – in particolare i Paesi del Maghreb prima e del Medio Oriente dopo – ottenessero la sovranità. In altre parole, non erano contrari nel vedere in opera ciò che sarebbe accaduto da lì a pochi anni, vale a dire, il progressivo smantellamento degli imperi coloniali francesi e britannici. Non stiamo parlando di un atteggiamento filantropico da parte di Washington, bensì un modo per preservare una zona d’influenza in una delle aree più strategiche del mondo. Con la Dottrina Eisenhower – che non era altro che l’estensione della dottrina Truman – si cercò di evitare che i nuovi Stati non cadessero sotto il fascino comunista, ma anche di sostituire l’imperialismo europeo con l’egemonia americana (tema questo peraltro ben descritto nel volume International Relations: Foreign Policy of the United States of America di Prakash Chandra).
La Crisi di Suez nel 1956, che giustificò l’intervento americano nella regione – quando sotto minaccia della sospensione del piano Marshall, Israele ma particolarmente Francia a Gran Bretagna dovettero abbandonare le proprie ambizioni sull’Egitto – non fu mai del tutto digerita da Londra e Parigi, richiamate all’ordine dall’alleato oltre oceano. La famosa frase “La France défend en Afrique du Nord sa dernière chance. Entre sa vocation africaine et l’amitié américaine, ne la forcez pas à choisir” (“la Francia difende la sua ultima chance in Africa del nord. Tra la sua vocazione africana e l’amicizia con gli USA, non obbligatela a scegliere”) di Thierry Maulnier – giornalista e scrittore francese – nelle sue “Lettres aux americains” del 1968, racconta con amarezza l’umiliazione subita da parte dei Francesi sotto gli occhi di Nasser e di milioni di Arabi.
D’altronde, il così detto “Algerian Speech” del senatore J.F. Kennedy del 2 luglio 1957, disegna perfettamente la politica anti imperialista condotta dagli Stati Uniti. Inoltre, da non dimenticare le varie politiche adoperate per l’Africa nell’era Clinton con il fine di contrastare quel che rimaneva dell’egemonia europea sul Continente Nero.
È in questa logica che bisogna leggere la questione del Sahara Occidentale. Gli Stati Uniti – mediante l’ONU – hanno cercato fin dall’inizio di condurre una politica volta al classico “dividi et impera”: divisione del territorio marocchino, così da poter creare un proprio spazio d’influenza in una zona di dominio storicamente europeo. Le tensioni sollevate dal Fronte Polisario si sono mostrate come l’alibi perfetto per realizzare questo obiettivo. La divisione dell’ex colonia britannica del Sudan, incoraggiata da Washington, è un ulteriore esempiodi questa strategia.
Sebbene si pensi che il conflitto del Sahara Occidentale sia un tête-à-tête tra Marocco e Algeria, la realtà è ben diversa. Si possono scorgere due soluzioni contrapposte. Da una parte c’è l’ONU, che spinge per l’attuazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo sahrawi, il cui fine dovrebbe essere la creazione di uno Stato nazionale. Dall’altra c’è il Marocco, che ha presentato già da diversi anni un progetto di autonomia regionale, che però vedrebbe tutta la regione definitivamente annessa al regno di Muhammad VI.
La Gran-Bretagna, che ha importanti interessi economici in Algeria, e la Francia, che conserva nonostante tutto una certa influenza nel Paese, spingono verso la soluzione proposta dal Marocco. Il portavoce del Ministero degli Esteri francese ha dichiarato recentemente – dopo la presa di posizione di Ban Ki-moon – che la proposta di Rabat costituisce l’unica vera e credibile soluzione per risolvere nel migliore dei modi la diatriba. Frase su cui anche Algeri si trova d’accordo.
Di: Mohamed Ali Anouar