Caratterizzato da una storia millenaria, da un variopinto mosaico etnico-linguistico, e da una grande varietà culturale, l’Afghanistan è più che altro conosciuto per essere territorio di conflitti. Ma quali sono le radici di questa situazione, quale realtà regionale definisce l’Afghanistan moderno, e quali sono le speranze di rinascita dalle ceneri della guerra?
Questo è il primo di tre articoli dedicati alla complicata situazione dell’Afghanistan.
Comprendere l’Afghanistan di oggi – paese chiuso e isolato – per fare luce sui numerosi problemi che vessano la sua popolazione, richiede di partire dall’interno, dall’osservazione della sua realtà politica, militare, sociale, e dall’analisi delle cause e delle implicazioni che tale realtà ha.
Debolezza militare
Secondo un’antichissima leggenda afghana, dopo aver creato il mondo Allah si ritrovò in mano un pugno di scarti e, non sapendo cosa farne, li lanciò a caso sulla terra. Fu così che nacque l’Afghanistan.
Senza volersi abbandonare al romanticismo mitologico, questa immagine dell’Afghanistan appare tuttavia appropriata a descrivere un paese che sembra effettivamente essere stato dimenticato da dio. L’Afghanistan è infatti paese la cui storia degli ultimi decenni – ma anche nei secoli scorsi – non ha conosciuto pace né tregua: stuprato da attacchi esterni e conflitti sin dall’invasione sovietica del 1979; teatro di una brutale guerra civile dal ritiro sovietico nel 1989 fino alla presa di Kabul da parte dei Talebani nel 1996; rifugio di gruppi terroristici dalla seconda metà degli Anni ’90; e infine vittima della dottrina della “guerra al terrore”.
Dall’ottobre 2001, nel quadro dell’intervento americano lanciato attraverso Operation Enduring Freedom, che era allora l’incarnazione del riscatto statunitense in seguito ai fatti dell’11 settembre, il paese ha poi visto passare sul proprio suolo delle forze internazionali che hanno contribuito alla missione americana e alla parallela missione ISAF a guida Nato. Tale situazione, fatta di una massiccia presenza internazionale legittimata in nome di una guerra universale al terrorismo jihadista – che aveva trovato un rifugio sicuro nell’Afghanistan dei Talebani – si è protratta pressoché immutata fino al 2015, quando la presenza americana è stata ridotta a 9.800 truppe, e la missione ISAF è stata sostituita dalla più modesta missione Resolute Support.
Pur nel quadro di questa importante riduzione numerica, che indica peraltro un più generale ripensamento della strategia Usa e Nato in Afghanistan, gli obiettivi chiave delle forze occidentali presenti nel paese restano essenzialmente due: la lotta al terrorismo jihadista incarnato da gruppi quali Al Qaeda, i Talebani, l’Haqqani Network, e ISIS; e l’addestramento delle forze di sicurezza afghane (ANSF), comprendenti l’Afghan National Army (ANA), l’Afghan National Air Force (ANAF), e l’Afghan National Police (ANP).
Tuttavia, rispetto ad entrambi gli obiettivi, i risultati finora raggiunti si sono rivelati di gran lunga inferiori alle aspettative – aspettative forse eccessivamente ottimistiche e insufficientemente consapevoli della realtà interna afghana – a partire dalle quali erano stati formulati. Come verrà visto in maggior dettaglio più avanti, le missioni Usa e Nato hanno saputo solo allontanare temporaneamente, ma non cancellare definitivamente, la minaccia rappresentata dai gruppi terroristici attivi nel paese, che hanno al contrario rivelato una grande capacità di adattamento e riorganizzazione.
Per quanto riguarda il secondo – e correlato – obiettivo dell’addestramento delle forze di sicurezza afghane, nonostante gli sforzi condotti dagli USA e dai suoi alleati sotto la guida del Generale John Nicholson, e nonostante gli ingenti investimenti nella ricostruzione di una struttura militare afghana efficace e credibile, le forze militari locali continuano a mostrare debolezza operativa e sostanziale incapacità di provvedere in modo autonomo alla sicurezza del paese.
Costrette a fronteggiare problemi quali lo scarso livello di sofisticazione delle armi a disposizione e il limitato accesso alle più recenti tecnologie militari, la sostanziale mancanza di una cultura moderna, militare e strategica nazionale, che sia capace di catalizzare i diversi gruppi che compongono il mosaico etnico-sociale afghana, e la necessità di lasciare molte zone rurali del paese al di fuori dell’ombrello protettivo di Kabul così da poter concentrare le forze nei pressi dei maggiori centri urbani e nelle regioni dove la minaccia alla sicurezza appare più grave, le forze afghane hanno in più occasioni mostrato la propria dipendenza dal supporto militare americano.
Questa realtà – la cui gravità ha peraltro spinto Nicholson a respingere ogni proposta di ulteriori riduzioni al contingente Usa in Afghanistan e a richiedere, al contrario, il dispiegamento di più truppe sul territorio – trova peraltro conferma nei dati relativi al controllo territoriale da parte delle forze regolari afghane: un declino dal 72% al 57% negli ultimi due anni.
Alla limitata competenza e autonomia operativa delle forze di sicurezza afghane sono poi da aggiungere altri fattori che vanno a completare lo scoraggiante quadro dell’attuale situazione militare nel paese: la corruzione endemica diffusa tra i più alti livelli dell’establishment militare, che spesso impedisce l’efficace e rapido trasferimento di truppe, armi, cibo, e munizioni da un avamposto all’altro; la realtà dei cosiddetti “ghost soldiers”, ossia individui registrati nel libro paga del governo afghano ma che di fatto non prestano servizio; l’elevato numero di diserzioni che crea un clima di sfiducia reciproca all’interno dei contingenti e ne riduce l’affidabilità; ed infine la minaccia di infiltrazioni da parte di individui legati a gruppi terroristici che penetrano nei ranghi dell’esercito per condurre i propri attacchi contro target militari, come successo nel recente attacco compiuto dai talebani contro una base militare dell’Esercito nella provincia di Balkh, dove sono morti più di 140 soldati.
La gravità di questo complesso insieme di fattori, peraltro, non solo è legata alla capacità operativa delle forze di sicurezza afghane, ma anche compromette la loro stessa legittimità e credibilità agli occhi della popolazione, andando così a fomentare instabilità e insicurezza.
Instabilità politica
Sul piano politico, a fare da specchio fedele a tale scoraggiante situazione militare, c’è l’instabilità in cui l’Afghanistan versa da decenni e la fragilità dell’esperimento democratico che l’intervento internazionale ha cercato di promuovere nel contesto post-2001. A questo rispetto, sembrava che il paese stesse finalmente muovendo verso l’ideale di un’autentica democrazia rappresentativa quando nel settembre 2014 le elezioni presidenziali hanno portato alla formazione di un governo di unità nazionale (NUG) guidato da Ashraf Ghani, in veste di Presidente, e da Abdullah Abdullah in veste di Chief Executive – una carica creata ad hoc per far fronte alle accuse di frode elettorale che avevano accompagnato la vittoria di Ghani e per controbilanciare il potere Pashtun rappresentato dal Presidente attraverso una figura politica che fosse invece rappresentativa della componente etnica Tagika.
Da questo punto di vista, la creazione del NUG ha indubbiamente rappresentato un grande passo avanti per un paese che dopo due decenni di guerre e dopo due mandati presidenziali di Karzai cercava di imboccare – in modo più o meno consapevole e con più o meno convinzione – la strada verso un sistema politico più democratico, stabile, e legittimo.
Tuttavia, la fiducia con cui gli osservatori internazionali avevano accolto in un primo momento l’ascesa di Ghani e Abdullah a Kabul è stata presto contraddetta dai fatti, che hanno al contrario corroborato lo scetticismo di quanti tra gli afghani non hanno mai creduto che un paese nato da un cumulo di “sassi e scarti” potesse così facilmente scrollarsi di dosso le macerie lasciate da decenni di guerra e violenza interna.
Paralisi politica e stallo decisionale continuano infatti ad ostacolare il funzionamento del governo a Kabul, dando vita a una spirale di inefficienza che interessa il livello nazionale così come quello regionale e provinciale. Qui, peraltro, molte cariche continuano a restare vacanti a causa di una mancanza di accordo sulle nomine che ha lasciato interi distretti in situazioni di pseudo-anarchia e vittime di abusi di potere e corruzione.
L’incapacità di raggiungere accordi e compromessi che possano muovere gli arrugginiti ingranaggi della macchina governativa afghana è il principale ostacolo cui il NUG si deve confrontare fin dai suoi primi giorni d’insediamento, ed è l’inevitabile conseguenza di una cultura politica basata su clientelismo, nepotismo, e alleanze/rivalità settarie che trovano le proprie radici in una società storicamente fondata sul tribalismo. Sullo sfondo di questa realtà sociale è dunque emersa una politica in cui i legami tra clan prevalgono sull’interesse nazionale e in cui le istituzioni faticano a rendersi inclusive e rappresentative di ogni componente della variopinta popolazione afghana.
In un tale contesto politico, non sorprende allora come la popolazione nutra profonda sfiducia nei confronti di un governo centrale che sembra incapace di garantire rappresentanza e stabilità, e mostri al contrario supporto per leader tribali locali che appaiono maggiormente in grado di garantire livelli minimi di sicurezza e ordine.
[notice]Nella prossima parte di questo speciale sull’Afghanistan parleremo delle ingerenze esterne e del terrorismo.
[/notice]
di Marta Furlan