Lo scorso 19 marzo, con un messaggio televisivo alla nazione, Nursultan Nazarbayev ha annunciato le sue dimissioni dalla presidenza del Kazakhstan: una scelta improvvisa, ma non del tutto inaspettata.
Nazarbayev era l’ultimo dei leader post-sovietici a guidare ancora il proprio Paese, di cui aveva preso il controllo nel 1989, anno in cui aveva succeduto Kolbin nel ruolo di Segretario generale del Partito comunista kazaco.
Nonostante il carattere autoritario della sua presidenza, va riconosciuto a Nazarbayev di aver ottenuto diversi risultati positivi nel corso dei suoi trentanni al potere, come la pacifica rinuncia alle armi nucleari ereditate dal Kazakhstan dopo il crollo dell’URSS, lo sfruttamento delle risorse naturali che hanno reso il Paese il più ricco e sviluppato dell’Asia centrale, l’abile gestione dei rapporti inter-etnici in uno Stato che, al momento del collasso dell’Unione sovietica, era popolato quasi in egual misura da individui di origine russa e kazaca, con questi ultimi che rappresentavano solo il 43% della popolazione totale.
Le dimissioni di Nazarbayev giungono in un periodo di crescente incertezza dal punto di vista geopolitico per Astana – ops Nursultan, nuovo nome affibbiato alla capitale, nonché nome “di battesimo” dell’ormai ex presidente – che si trova a dover confronta una Russia sempre più attiva dal punto di vista militare al nord, e la potenza economica ed espansionistica cinese ad est.
Nazarbayev è riuscito a gestire al meglio i rapporti con gli ingombranti vicini, sfruttando a proprio vantaggio la delicata collocazione geografica del Paese, intrattenendo allo stesso tempo delle ottime relazioni diplomatici con l’Occidente.
Contemporaneamente, il Kazakhstan si trova a dover affrontare importanti sfide interne. La situazione economica non ha visto significativi miglioramenti negli ultimi dieci anni. I diversi programmi implementati sfruttando le riserve del Fondo Nazionale, per diversificare l’economia, del Paese rendendola meno dipendente dal petrolio, non hanno prodotto i risultati sperati causando, al contrario, una forte svalutazione del tenge, la valuta nazionale. Vi è, inoltre, una crescita del disagio sociale, come dimostrano le proteste di inizio anno, che hanno portato ad un rimpasto di governo, finalizzato proprio a far cessare tali rivolte.
Le dimissioni di Nazarbayev per quanto apparentemente inaspettate, non sono frutto di una decisione improvvisa. Al contrario, come fa notare Alexander Gabuev, senior fellow al Carnegie Moscow ciò che è importante comprendere è che esse sono parte di un piano di transizione che l’ormai ex presidente kazaco aveva in mente da almeno due anni e mezzo.
Più volte, infatti, Nazarbayev aveva sottolineato la sua ammirazione per Lee Yuan Kew, l’autocrate di Singapore, di cui desiderava emulare anche il modello di transizione del potere.
L’evento che potrebbe avere esercitato l’influenza maggiore su Nazarbayev, portandolo a stilare un piano per la propria successione, è stata la morte di Islam Karimov, dittatore uzbeco, nel settembre 2016 e, in particolare, il modo in cui è stata gestita la transizione di potere in Uzbekistan.
Karimov è certamente ancora riverito a livello ufficiale, tuttavia la sua famiglia vive tempi duri dal momento in cui non gode più della protezione presidenziale; inoltre, l’importante programma di riforme lanciato dal successore di Karimov, Shavkat Mirziyoyev, vede proprio nel suo predecessore e le sue politiche il principale responsabile dello stato disastroso in cui ha ereditato il Paese.
La prima importante mossa di Nazarbayev per favorire una successione non traumatica è stata la nomina di Karim Masimov alla guida dei servizi segreti kazachi, KNB. Sotto l’egida di Masimov, il KNB ha fatto piazza pulita dell’élite, preparando il terreno per la transizione.
Nel 2017, poi, Nazarbayev ha iniziato una riforma costituzionale che ha portato, da un lato ad una parziale trasferimento di poteri dalla presidenza al parlamento, dall’altro lato ha trasformato il Consiglio Nazionale di Sicurezza da organismo meramente consultivo a organismo di rango costituzionale: Nazarbayev ne è stato nominato presidente a vita.
Proprio la guida del Consiglio Nazionale di Sicurezza, assieme al controllo del proprio partito, Nur Otan, che possiede la quasi totalità dei seggi parlamentari, permetterà a Nazarbayev di esercitare un forte controllo sull’apparente transizione del potere.
Nell’immediato le redini del potere, quantomeno sino alle elezioni presidenziali dell’aprile 2020 saranno nelle mani di Kassim Jomart Tokaev, ex speaker del Senato. Questi è uno dei più stretti alleati di Nazarbayev e gode di grande stima sia in Russia, sia in Cina, Paesi in cui ha vissuto in qualità di diplomatico sovietico, ma anche degli Stati Uniti: un profilo, dunque, che non dovrebbe determinare degli scossoni né dal punto di vista interno, né per quanto riguarda i legami internazionali del Paese.
Nel lungo periodo, il candidato più probabile a divenire il terzo presidente del Kazakhstan appare la figlia maggiore di Nazarbayev, Dariga, eletta a sua volta speaker del Senato, la seconda più importante carica del Paese, per sostituire Tokaev; tuttavia, profondi conoscitori della regione, come Bruce Pannier di Rferl, dubitano che possa essere davvero lei a succedere al padre.
Ciò che invece appare probabile, è che questo “metodo” di transizione del potere potrà essere imitato da altri Paesi centrasiatici, in particolare dal Tajikistan, dal suo presidente Rahmon.
Allo stesso modo, la fase di cambio del testimone nello Stato eurasiatico verrà osservata con attenzione anche da Vladimir Putin, il quale, con l’avvicinarsi del 2024 dovrà iniziare a pensare a quale possa essere il modo meno traumatico per abbandonare la scena politica senza destabilizzare il proprio Paese.
di Antonio Schiavano