Le relazioni tra Russia e Palestina nel segno della continuità

TAS14: MOSCOW, RUSSIA. AUGUST 11. President of Russia t Vladimir Putin (R) has received in the Kremlin today Chairman of the Executive Committee of Palestine Liberation Organisation Yasser Arafat (L) who arrived in Moscow Thursday evening on a working visit. (ITAR-TASS photo/ Vladimir Rodionov; Sergei Velichkin) ----- ÒÀÑ23. Ðîññèÿ, Ìîñêâà. 11 àâãóñòà. Ñåãîäíÿ â Êðåìëå ïðåçèäåíò Ðîññèè Âëàäèìèð Ïóòèí (íà ñíèìêå ñïðàâà) ïðèíÿë ïðåäñåäàòåëÿ Èñïîëêîìà Îðãàíèçàöèè îñâîáîæäåíèÿ Ïàëåñòèíû ßñèðà Àðàôàòà (ñëåâà), ïðèáûâøåãî â ÷åòâåðã âå÷åðîì ñ ðàáî÷èì âèçèòîì â Ìîñêâó. Ôîòî Âëàäèìèðà Ðîäèîíîâà è Ñåðãåÿ Âåëè÷êèíà (ÈÒÀÐ-ÒÀÑÑ)

Fatta eccezione per gli errori di valutazione di Stalin, il rapporto tra Mosca e la Palestina è sempre stato all’insegna della continuità, sia che si guardasse ai punti in comune, sia che si prestasse attenzione alle reciproche rimostranze.


Il Medio Oriente ha rivestito, e riveste tuttora, notevole importanza nella politica estera della Russia. Dopotutto, come più volte affermato dal Cremlino, l’instabilità di cui la regione è vittima da ormai un secolo potrebbe rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale del Paese eurasiatico.

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In epoca sovietica, d’altronde, la prossimità geografica tra il territorio dell’Urss ed alcune nazioni mediorientali rendevano concreta la preoccupazione espressa dalle autorità di Mosca. Al giorno d’oggi, invece, è il fondamentalismo islamico, con il suo carattere transnazionale, a preoccupare la Federazione Russa. Non bisogna dimenticare che il Paese ospita una folta minoranza musulmana che, in alcuni casi, si è dimostrata piuttosto permeabile alle idee estremiste. Basti pensare al controverso movimento separatista ceceno, mai del tutto secolarizzato e ben presto radicalizzatosi. Ad ogni modo, è interessante notare come il Cremlino abbia spesso sfruttato le possibilità offerte dalla presenza di una minoranza islamica all’interno del Paese per essere accreditato come interlocutore credibile nel mondo arabo.

Le relazioni tra i russi ed i palestinesi sono state senza ombra di dubbio più continue rispetto a quelle che Mosca ha intrattenuto con Tel Aviv.

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Ciononostante, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Urss fu uno dei Paesi maggiormente impegnati nel sostenere il piano per la formazione dello Stato di Israele, una volta decorsi i termini del mandato britannico. Tale postura, che parrebbe in contrasto con quanto accaduto negli anni immediatamente successivi, fu determinata dall’errata valutazione dei vertici sovietici nel perseguimento dell’interesse nazionale dell’Urss. Il Cremlino sottostimò il sentimento anti-occidentale delle popolazioni arabe, che dilagò in maniera incontrollabile a seguito della nascita di Israele.

Nonostante Lenin avesse riconosciuto in tempi non sospetti il potenziale delle nazioni islamiche del Medio Oriente come alleati nello scontro con l’Occidente, che il decano del comunismo sovietico vedeva come inevitabile e che fu considerato tale almeno fino alla comparsa delle armi nucleari, Stalin non sembrò essere dello stesso avviso.

Il Segretario Generale del Pcus riteneva che suddetti Paesi fossero reazionari, per utilizzare un termine caro all’intellighenzia comunista, ed ancora fortemente influenzati dalle potenze coloniali che li avevano soggiogati per lungo tempo. In aggiunta, l’ideologia marxista non si era ancora diffusa nella regione e, per questo motivo, gli strateghi del Cremlino non ritenevano possibile arruolare le popolazioni arabe alla causa proletaria.

In estrema sintesi, Stalin considerò che i vantaggi derivanti dal supporto allo Stato ebraico sarebbero stati di molto superiori rispetto a quelli derivanti dalla solidarietà nei confronti dei Paesi musulmani.

Il Segretario Generale del Pcus all’epoca della nascita dello Stato di Israele, Josif Vissarionovich Stalin

Ad ogni modo, l’evidente errore di valutazione della leadership sovietica non fu riparato in tempi brevi e, nonostante per buona parte della Guerra Fredda l’Urss fosse divenuta il principale protettore della Palestina, il supporto di Mosca all’OLP fu piuttosto tardivo. L’Organizzazione, dopotutto, fu fondata nel 1964 e soltanto sul finire del decennio il Cremlino ne riconobbe lo status di “movimento di liberazione”, al contempo attribuendo ai palestinesi quello di “popolo”.

Questi sviluppi, poi, non furono determinati da questioni ideologiche, bensì da motivazioni pragmatiche legate a quello che l’Unione Sovietica percepiva come il proprio interesse nazionale. L’OLP ottenne i favori di Mosca perché le autorità del Cremlino compresero l’importanza che essa rivestiva per gli alleati arabi e per contrastare l’influenza degli Stati Uniti nella regione, i quali erano i principali alleati di Israele.

Proprio la competizione tra le due superpotenze globali portò, infine, al pieno sostegno dei sovietici all’idea di uno Stato palestinese, riscontrabile a partire dal 1974, ed al loro riconoscimento dell’OLP come unico rappresentante legittimo di suddetto popolo, a partire dal 1978. Con il passare del tempo, l’Organizzazione divenne sempre più centrale nella politica estera dell’Unione Sovietica, almeno per quanto riguarda la regione mediorientale. Questo perché consentiva a Mosca di mantenere un certo grado di influenza in un’area che altrimenti avrebbe visto prevalere nettamente gli Stati Uniti.

È fondamentale tenere presente che tale approccio pragmatico non fu prerogativa esclusiva del Cremlino. Anche la leadership palestinese adottò un atteggiamento simile nei confronti dell’Urss. Del resto, questa reciprocità consentiva ai membri dell’OLP di mantenere una certa libertà di manovra rispetto al volere di Mosca. Non è un caso che vi fossero importanti divergenze rispetto ad alcune questioni rilevanti.

I sovietici, infatti, ritenevano che fosse fondamentale che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina riconoscesse Israele. Ciò era necessario per intavolare i negoziati che avrebbero potuto portare alla pace, oltretutto garantendo al Cremlino la possibilità di partecipare ai colloqui. Le autorità russe, in fin dei conti, appoggiavano con decisione l’idea che l’unica soluzione possibile del conflitto dovesse prevedere la partizione della Palestina in due Stati.

D’altronde, considerando l’impegno incondizionato profuso da Washington nella difesa di Israele, diveniva davvero complesso immaginare che la resistenza araba locale avesse qualche possibilità di vittoria sullo Stato ebraico. In aggiunta, tra i principali grattacapi di Mosca vi era la mancanza di unità tra le fila palestinesi. Il fatto che la fazione apparentemente più forte fosse Fatah, gruppo di ispirazione islamica ed allineato sulle posizioni dell’Arabia Saudita, altro importante alleato di Washington nella regione, poneva diversi interrogativi alla leadership sovietica. Fu però l’uomo di punta di Fatah, Yasser Arafat, a consentire il superamento dell’impasse. In particolare, fu determinante il suo interesse per la negoziazione di una soluzione della controversia, piuttosto che il perseguimento di una strategia militare (che pure non venne abbandonata) a convincere definitivamente Mosca.

Il leader di Fatah e dell’Autorità Palestinese, Yasser Arafat

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, però, le cose parvero cambiare. L’avvento degli occidentalisti nell’amministrazione guidata da El’tsin, primo Presidente eletto nella Russia che si avviava sul tortuoso sentiero democratico durante gli anni Novanta, determinò un allineamento stupefacente della politica estera del Paese a quella statunitense.

I rapporti con Israele furono rispolverati, a tutto svantaggio di Ramallah. Eppure, il brusco risveglio di Mosca dalla sbornia filo-americana degli anni immediatamente successivi all’implosione dell’Urss, ribaltò nuovamente la situazione. Il nuovo Ministro degli Esteri, Evgenij Primakov, impose una traiettoria differente alle relazioni della Federazione.

Ebreo di nascita ma filo-arabista per vocazione, pur non rinunciando al vantaggioso rapporto instaurato con Tel Aviv, si prodigò per orientare la politica estera del Paese verso quello che riteneva essere l’interesse nazionale della Russia. Era necessario tornare in Medio Oriente, e le relazioni, ormai storiche, con l’Autorità Palestinese (PA) avrebbero consentito al Cremlino di dire la propria.

La linea tracciata da Primakov è stata seguita anche dalle amministrazioni successive, ovvero quelle guidate da Vladimir Putin. Mosca, in effetti, ha garantito il proprio supporto alla causa di Ramallah all’interno dei principali consessi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite. La Federazione Russa, del resto, persegue una strategia che prevede il mantenimento di un dialogo continuo con le fazioni che rappresentano le diverse anime del popolo palestinese, pur seguitando a sostenere, come già accadeva in epoca sovietica, l’importanza dell’unità di quest’ultimo.

Per questo motivo, Mosca non ha mai considerato, al contrario di quanto fatto da Unione Europea e Stati Uniti, Hamas come un’organizzazione terroristica. Al di fuori del mondo islamico, la Federazione Russa risulta l’unico Paese di un certo prestigio ad intrattenere relazioni diplomatiche con suddetta entità. Quanto scritto è piuttosto importante, poiché Hamas rappresenta le idee di una quota non trascurabile del popolo palestinese, radicalizzato da decenni di ingiustizie, vere o presunte che siano.

Mosca, che ha persino invitato una delegazione dell’organizzazione dopo che questa ebbe vinto le elezioni parlamentari del 2006, ha spesso sottolineato la necessità che Hamas abbandoni la lotta armata e riconosca lo Stato di Israele come legittimo ma, rispetto ad entrambi i punti, non sono stati registrati grandi progressi. Ad ogni modo, grazie al rapporto con l’organizzazione islamista, il Cremlino ha la possibilità di giocare un ruolo importante nel processo di pace con Israele. Dopotutto, come detto, è l’unico interlocutore di Hamas ad eccezione dei Paesi arabi.

Come scritto in precedenza, uno dei capisaldi della strategia del governo russo per i negoziati è la necessità che i palestinesi si presentino al tavolo delle trattative come un fronte unito. Ancora una volta, è proprio Hamas l’elemento maggiormente diviso. Rispetto a questo obiettivo, però, qualche passo in avanti sembra essere stato fatto.

Nel 2017, infatti, l’organizzazione, bollata in Occidente come terroristica, ha rilasciato un documento nel quale si afferma l’accettazione di uno Stato palestinese basato sui confini emersi dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967. Hamas, che si era sempre rifiutata di adeguare le proprie rivendicazioni alla realtà dei fatti, sarebbe scesa a compromessi allo scopo di facilitare il processo di pace tramite la ricomposizione della frattura con l’Autorità Palestinese. Dopotutto, il Cremlino aveva profuso enormi sforzi per consentire l’apertura di un dialogo costruttivo tra Fatah, saldamente in controllo della PA, ed Hamas. Cosa che in fin dei conti continua a fare.

È interessante notare, poi, che il governo russo mantiene contatti anche con diverse altre organizzazioni palestinesi, con le quali seguita ad intrattenere rapporti allo scopo di trovare una posizione comune che possa consentire l’unificazione dell’intero fronte.

Sostenitori e militanti di Hamas manifestano sventolando la bandiera verde simbolo dell’organizzazione

In aggiunta, le politiche decisamente filo-israeliane dell’amministrazione Trump, hanno senza dubbio contribuito ad aumentare l’importanza della Federazione Russa nello svolgimento dei negoziati. Almeno dal punto di vista di Ramallah, certamente non contenta delle scelte operate a Washington.

A corollario di ciò, vi è il tentativo del Cremlino di rivitalizzare il Quartetto di Madrid, consesso finito nel dimenticatoio a causa delle stesse politiche. Appare inoltre piuttosto interessante notare come la partecipazione della Russia al conflitto civile siriano sia stata fondamentale per consentire ad Hamas di riallacciare i rapporti con il governo di Damasco. Le controparti avevano infatti interrotto qualsiasi relazione al momento dello scoppio delle ostilità in Siria. Nel corso della lunga guerra che ha devastato il Paese mediorientale, poi, i russi si sono occupati dell’addestramento delle brigate note come Liwa al-Quds, di chiara provenienza palestinese. Ovviamente, queste particolari azioni ed i rapporti intrattenuti da Mosca con attori che possono essere considerati quantomeno controversi, non hanno semplificato le relazioni con Israele.

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In conclusione, è possibile affermare che sia riscontrabile una certa continuità nelle politiche adottate dal Cremlino nel proprio rapporto con la Palestina.

Sin dai tempi dell’Urss, il governo sovietico ha sottolineato la necessità di unificare il fronte della resistenza palestinese, da sempre frammentato e dunque debole da un punto di vista negoziale. Anche l’idea della partizione dei territori che fanno capo alla Terra Santa è da lungo tempo al centro dell’agenda del Cremlino che, dopotutto, fu uno dei principali sostenitori della nascita di Israele.

In ultimo, Mosca ha sostenuto con una certa costanza la necessaria partecipazione di Hamas al processo di pace, contestando contestualmente a quest’ultima il prosieguo della lotta armata ed il mantenimento di posizioni inconciliabili, come il mancato riconoscimento della legittimità dello Stato ebraico.

Ad ogni modo, sono proprio le relazioni con i differenti gruppi che rappresentano la società palestinese a garantire alla Russia un ruolo di primo piano nei colloqui per il raggiungimento della pace. Pace che, agli occhi del Cremlino, sarebbe la chiave per una maggiore stabilizzazione dell’intero Medio Oriente, data l’importanza rivestita dal conflitto con Israele.

Vista la crescente assertività della Federazione ed il suo rinnovato impegno quale attore rilevante per i destini della regione, è facile prevedere che Mosca continuerà a mantenere una relazione pragmatica con tutti gli attori considerati fondamentali nel campo palestinese.


Per approfondire: 

A. Krammer, “Soviet Motives in the Partition of Palestine, 1947-48”, in Journal of Palestine Studies, Los Angeles, University of California Press, 1973.

G. Golan, “The Soviet Union and the PLO since the War in Lebanon”, in The Middle East Journal, Washington, DC, Middle East Institute, 1986.


Di: Riccardo Allegri