Lo scorso ottrobre L’Aia ha rigettato, con un ampio consenso (12 voti a 3), la questione posta dalla Bolivia circa l’obbligo, da parte del Cile, di negoziare la concessione di uno sbocco sull’Oceano Pacifico.
La Corte aveva già avuto modo di esprimersi sugli echi della “Guerra del Pacifico” nel 2008, quando il Perù decise di adire riguardo l’effettiva esistenza di una frontiera marittima con il Cile e, nel caso se ne fosse comprovata l’esistenza, da quale natura e da che entità sarebbe connotata.
Le autorità peruviane hanno fondato la loro richiesta sugli articoli 36 e 40 dello Statuto della Corte e sull’art. XXXI della Carta di Bogotá (1948), secondo il quale gli Stati contraenti sono obbligati a riconoscere la giurisdizione della Corte in controversie con altri Stati membri – esattamente le stesse basi giuridiche su cui poggia il ricorso boliviano. In proposito la Corte si è espressa ribadendo il proprio orientamento conservatore, che fa riferimento al principio dell’equidistanza.
Una questione secolare
Ma di cosa stiamo parlando?
La “Guerra del Pacifico”, scoppiata nel 1879 tra Cile, Bolivia e Perù, fu la conseguenza di una lunga tradizione di rivalità commerciale – in particolare tra i porti cileni e peruviani – e aspirazioni egemoniche sulla regione.
La Bolivia, che all’epoca comprendeva nei propri confini il deserto di Atacama, e di conseguenza una porzione della costa occidentale, aveva firmato nel 1866 un accordo col Cile affinché quest’ultimo potesse sfruttare gratuitamente, per un periodo di 15 anni, il 50% dei giacimenti di guano (usato come esplosivo) e di salnitro (usato come fertilizzante) di proprietà boliviana. Nel 1873 però, col timore che il Cile potesse in futuro avanzare pretese ricorrendo all’uso della forza, Bolivia e Perù firmarono un trattato segreto di alleanza, che, nei piani di boliviani e peruviani, avrebbe dovuto essere firmato anche dall’Argentina, in quel periodo ostile al Cile, e al quale contendeva il controllo sulla Patagonia.
Allo scadere del quindicennio previsto dal trattato del ’66, Bolivia e Cile trovarono un nuovo accordo con il quale si manteneva sostanzialmente invariato il confine tra i due Stati, pressoché corrispondente al 24⁰ parallelo, ma che pose fine alla zona di mutuo beneficio introducendo una tassa sulle risorse estratte in territorio boliviano. La nuova imposta ricadde principalmente sulla Compañía de Salitres y Ferrocarriles de Antofagasta (CSFA), un’impresa cilena che accettò a condizione che la tassazione non fosse alzata nei 25 anni successivi.
La crisi economica nella quale stava sprofondando la Bolivia alla fine del decennio (1878), costrinse le autorità a rivedere i termini del trattato e ad alzare l’imposta. Il governo cileno, ritenendo l’aumento della tassazione una violazione del trattato, decise di non versare nessun contributo alla casse boliviane per oltre un anno, provocando l’escalation che, dopo la confisca della CSFA, portò all’occupazione della città di Antofagasta nel febbraio 1879.
In una prima fase del conflitto, il Perù tentò di porsi come intermediario per evitare di essere trascinato in guerra – come stabilito dall’accordo del ’73. Tuttavia, la mancata partecipazione dell’Argentina, che aveva ottenuto dal Cile concessioni territoriali in cambio della neutralità, e la dichiarazione di guerra notificata dalle autorità cilene una volta scoperta l’alleanza con la Bolivia, obbligarono il Perù a partecipare alle azioni militari. Trasformatosi velocemente da una guerra marittima in una guerra su terreno, il conflitto vide le forze cilene travolgere quelle nemiche: la Bolivia dovette arrendersi nel maggio 1980 dopo la sconfitta nella battaglia di Tacna mentre il Perù resisteva perlopiù attraverso diverse forme di guerriglia sostenute dall’aiuto economico-finanziario boliviano.
L’occupazione di Lima, la capitale peruviana, portò alla capitolazione delle forze peruviane, con le quali il Cile stipulò la pace di Ancón (1883). Il cessate il fuoco definitivo venne firmato nel 1884. Esso ridefinì le frontiere tra i tre Paesi: il Cile stabilì la sua piena sovranità sui territori compresi tra il fiume Loa e il 23⁰ parallelo.
Da questo momento in poi le rivendicazioni delle parti in causa sono proseguite indipendentemente.
Sul fronte peruviano, le ferite aperte del conflitto hanno condotto ad una serie di nuovi trattati, firmati nel 1929 e nel 1999. Il Trattato di Arica e Tacna (‘29), insieme al Protocollo da cui è stato accompagnato, ha risolto la questione legata alla sovranità sulle due provincie di Tacna e Arica, assegnando la prima al Perù e la seconda al Cile, che in cambio cedette i diritti sui canali di Uchusuma e Mauri. L’Accordo per una Pace Globale e Definitiva (’99), con il quale il Perù si pose l’obbiettivo di concludere la disputa sui confini con l’Ecuador, venne completato da una rinnovata intesa con la controparte cilena affinché le controversie cessassero, per l’appunto, definitivamente.
Il Trattato di Pace e Amicizia tra Bolivia e Cile (1904) riconobbe i confini tra i due Paesi così come descritti dall’articolo 2 del Truce Pact (’84). Il Cile, per bilanciare l’ingente perdita territoriale della Bolivia, si impegnò a garantire al vicino i seguenti benefici:
- libero accesso al territorio “occupato”;
- la costruzione di una linea ferroviaria che collegasse Arica e Alto La Paz (passato parzialmente sotto il controllo dello Stato boliviano nel 1928);
- obbligazioni finanziarie.
I rapporti tra le due nazioni da questo momento saranno intervallati da tracolli e aperture al compromesso. Le relazioni diplomatiche, interrotte nel 1964, vengono riallacciate nel ’75, in occasione della proposta – rimasta segreta fino ad oggi – avanzata da Pinochet in merito ad uno scambio tra porzioni di territorio di equivalente grandezza, rifiutato dal governo boliviano che nel 1978 romperà un’altra volta i rapporti con il Cile.
Ristabiliti all’inizio del nuovo millennio, i legami cileno-boliviani si sono trovati nuovamente al centro di una disputa. In quegli anni infatti scoppiava la “Guerra del Gas”, un insieme di mobilitazioni sociali – che hanno raggiunto il loro apice nel 2003 – con le quali il popolo boliviano reclamava la priorità dell’interesse economico nazionale su quello straniero. A dare il via ai sollevamenti popolari fu la scelta di far passare un gasdotto per i porti cileni, più appetibili agli acquirenti statunitensi, invece che per il territorio peruviano, opzione che, oltre ad essere più conveniente, avrebbe permesso lo sviluppo delle provincie settentrionali del Paese.
Bolivia: la necessità dello sbocco sul mare
Il 23 marzo di ogni anno, dall’ascesa al potere di Evo Morales nel 2006, si festeggia la “Giornata del Mare”. L’importanza che ricopre la riconquista dell’acceso al mare è sintetizzata nel motto della marina boliviana – nonostante tutto ancora esistente – “El mar nos pertenece por derecho, recuperarlo es deber”.
Da un punto di vista politico, è emersa esplicitamente la volontà di Evo Morales di mettere in dubbio lo status quo dei confini nazionali, poiché imposti tramite la violenza e la guerra, proprio come nel caso del suo Paese, costretto nel 1904 a cedere parte del suo territorio sotto la minaccia militare cilena. Dal punto di vista pratico, data l’abbondanza di risorse disponibili in quest’area, l’accesso al mare rappresenterebbe per l’economia boliviana una vitale boccata d’ossigeno, senza contare degli enormi vantaggi che la possibilità di aprire rotte commerciali marine comporterebbe.
Le speranze del governo di La Paz di poter veder rispettato quello che viene definito un vero e proprio diritto sovrano erano aumentate dopo che la Corte Internazionale di Giustizia aveva respinto le eccezioni preliminari sollevate da Santiago. Secondo il governo cileno, infatti, non ci sarebbe dovuta essere alcuna controversia da risolvere, dato che i confini vennero negoziati e stabiliti attraverso i trattati del ’04 e del ’29. La sentenza, rivelatasi negativa per la Bolivia, è stata accompagnata da un auspicio dei giudici, che invitano le parti a proseguire il dialogo nonostante, come ben illustrato da Francisco Carballo, le possibilità che la Bolivia riesca ad ottenere risultati concreti tramite la negoziazione diretta sono veramente scarse e questo perché uno dei centri della disputa, la città di Antofagasta, rappresenta per l’economia cilena il 30% dell’export, una componente alla quale è difficile rinunciare.
di Riccardo Stifani