Ha ancora senso parlare di sfida delle migrazioni nel 2018? Se vista da un punto di vista sistemico, la risposta è no!
L’approccio stato-centrico al tema immigrazione, rischia di farci perdere di vista la reale morfologia di un fenomeno va ben oltre i nostri confini. Che lo si voglia o meno, l’evoluzione demografica e i fabbisogni a essa correlati (energetico, alimentare, ecc.) stanno profondamente mutando lo scenario globale per come lo conoscevamo. Da cinquantanni a questa parte, i flussi migratori vivono una crescita senza precedenti: il numero di migranti nel mondo è passato da 75 milioni nel 1965, a più di 200 milioni ad oggi.
Una dinamica esponenziale che vede questa enorme massa di persone in aumento del 2,9% l’anno, una crescita ben più consistente di quella demografica che a livello globale si attesta intorno all’1,2%. Si tratta di cifre da capogiro: parliamo infatti di quasi il 3% della popolazione sul pianeta terra. È con questi numeri che dovremo abituarci a fare i conti; ciò che oggi i governi interpretano come una condizione di emergenza temporanea è in realtà la più imponente domanda di mobilità che il mondo si sia trovato ad affrontare, proveniente da direttrici globali opposte e convergenti.
Nei Paesi più sviluppati (Italia compresa) ci sono due fattori che minano fortemente le basi della già flebile crescita economica: deficit demografico dovuto al progressivo invecchiamento, e la veloce redistribuzione della ricchezza globale verso i paesi in via di sviluppo. Uno dei modi esistenti per tentare di arginare questi due fenomeni sono l’importazione di manodopera e forza lavoro giovane e competente.
Sull’altro versante, i paesi ancora sulla via dello sviluppo richiedono una sempre maggiore quota di rimesse annuali (stimata per 583 miliardi di dollari nel 2014) utili a migliorare la solvibilità e accedere così ai prestiti internazionali. I paesi in via di sviluppo sono disposti ad offrire sempre più risorse per attirare l’esperienza e il know-how necessari a stimolare ulteriormente la crescita economica, sfruttando le risorse naturali e la grande quantità di manodopera disponibile.
Infine, l’esercito dei migranti. Milioni di uomini e donne che, per riflesso di mutamenti economici, demografici, climatici e sociali si spingono oltre i confini della propria madrepatria, spesso in fuga da contesti nei quali prevalgono guerra, violenza, malattie e denutrizione (è il caso di chi arriva oggi in Europa dal Nord Africa e dal Medio Oriente); o più semplicemente alla ricerca di un maggiore benessere e servizi civici, sanitari ed educativi più evoluti (si pensi ai 500 mila italiani che hanno lasciato il paese tra 2008 e 2013).
L’inefficacia delle risposte che i governi provano a dare alla crescente domanda di mobilità – specialmente nei paesi con un indice di sviluppo umano elevato – si rintraccia nell’asservimento alle scadenze dettate dai rispettivi calendari elettorali. E sebbene le riflessioni in materia non manchino, in nessun caso si è trovato un equilibrio tra le conseguenze che a breve termine avrebbe un’apertura ai flussi migratori (relative alla sicurezza e all’ordine sociale), e le importanti implicazioni demografiche di lungo periodo. Nella totale assenza di un’analisi multilaterale del fenomeno in chiave regolatoria, permane la policy orientata all’innalzamento di barriere selettive all’ingresso (si vedano USA, Russia e UE) e gli interventi diretti nei paesi in via di sviluppo volti a limitare le partenze.
Sorvolando sulla naturale conseguenza delle politiche di dissuasione operate dai paesi sviluppati – ovvero la diffusione estesa della rete clandestina e del suo indotto che, di fatto, non genera benefici economici ne demografici, ed innalza drammaticamente i rischi per chi si sposta da un’area del mondo a un’altra – questo approccio al fenomeno genera almeno due grandi paradossi: in primis, l’illusione di poter controllare la globalizzazione degli scambi senza averne gli strumenti; e in secondo luogo, l’aspettativa che i paesi d’origine dei migranti collaborino al contenimento dei flussi, quando mobilità e rimesse sono strumenti decisivi per il loro sviluppo.
Al di là sforzi fatti in sede ONU e degli esperimenti di redistribuzione per quota del flusso migratorio, manca ancora una riflessione collettiva sull’opportunità di armonizzare sviluppo e migrazioni a livello mondiale (considerando che entro il 2050, a causa del riscaldamento globale, i flussi potrebbero aumentare da 2 a 5 volte). Ecco dunque che non si tratta solo di emergenza, ma di un tema cruciale per il futuro del pianeta. Un tema che gli Stati non possono più affrontare sul piano “tattico”, ma che deve essere concertato al livello “strategico”.