Lo Stretto di Tiran, l’Egitto, l’Arabia Saudita e il panarabismo

REUTERS/AMR ABDALLAH DALSH
di Federico Bigongiari
Come pochi lembi di terra emersa possono spiegare il riposizionamento geopolitico di due potenze mediorientali e le loro aspirazioni panarabe. Una riflessione a mente fredda sugli sviluppi diplomatici mediorientali.

Mediterraneo. Culla di grandi civiltà. Luogo ameno. Fronte di scontro. Luogo di mediazione e incontro. Ogni definizione è valida,  logica conseguenza di una storia che si è sviluppata in migliaia di anni. Per descrivere una simile realtà, immaginate una cesta di serpenti. Paciosi, pigri, aggrovigliati uno sull’altro. Fermi o in lento movimento, quasi a non voler disturbare gli altri che sono mossi tuttavia dal loro lento moto.

Se uno di loro esagera, colui che si sente minacciato, o semplicemente compresso, può saettare al collo del vicino, non importa quanto più grande sia, provocando una rissa, un riassestamento di tutti contro tutti. Un moto che si espande ad onde e che si attenua solo dopo molto, molto tempo.

Per noi italiani è relativamente facile capire la stratificazione delle forze e dei sentimenti che convivono nella “cesta mediterranea”. Ad uno della Lega Lombarda non toccate Lampedusa. Si farebbe uccidere per mantenerla italiana, per difendere quello scoglio dagli “invasori extracomunitari”. Lo farebbe in nome dell’Italia. Alla stessa persona però non rammentate la storia della “terronia”, che diamine, e di quanto ci è costato il progetto di quel folle di Garibaldi. La stessa persona che ritrovi, accomunata in Cristo, a difendere l’intera Europa contro i “barbari invasori dell’Islam”. Strati, convulsioni, contraddizioni che hanno caratterizzato il Mediterraneo dai tempi dei fenici, degli antichi greci e via via, passando per i latini, i bizantini, i franchi, i musulmani, i turchi, i mamelucchi.

Ed è per tale motivo che non deve riservare sorpresa se in queste terre antiche, ti ritrovi un battaglione assiro che difende nel XXI Secolo la sua città, armi alla mano, contro tutti e tutto, dopo che l’Impero Assiro è ufficialmente scomparso da quasi 3.000 anni. La sorpresa vera, semmai è quella di prendere atto che nella testa di quegli uomini, che parlano antichi dialetti, vi è nitida la consapevolezza di essere eredi legittimi di quell’Impero dimenticato dagli altri perché, prima ancora che musulmani, sunniti, siriani, laici, mediterranei, sono “veri Assiri”.

Salman, il Re dell’Arabia Saudita ha incontrato al Cairo, ai primi di aprile 2016, il Presidente egiziano, Generale Abd al-Fattah al Sisi. I notiziari evocano non tanto l’incontro, quanto la notizia di un accordo che viene mescolato assieme a grandi altri progetti. Alcuni isolotti egiziani – Tiran e Sanafir – posti nel Mar Rosso, all’ingresso del golfo di Aqaba e non molto lontano da Sharm-el-Sheikh, passeranno sotto la sovranità dell’Arabia Saudita.


Al Cairo scoppiano subbugli. Nonostante l’oppressione del regime militare, le opposizioni insorgono e riescono a portare migliaia di persone in piazza, a difesa della bandiera, per quegli scogli che la Costituzione Egiziana definisce sacri e non negoziabili. Tiran era egiziana. Tutto il Medio Oriente era egiziano fino a 2300 anni fa. Occorre uno sforzo per far capire che gli Imperi hanno spostato le loro zolle tettoniche, che l’Impero ottomano è crollato, che i mamelucchi non comandano più al Cairo. Che la Gran Bretagna decise di assegnare Tiran all’Arabia non si sa bene perché in quanto le antiche carte ed i documenti dicono tutto ed il contrario di tutto. Cosa certa è che nel 1950 il Regno Saudita, per ringraziare Gamal Abdel Nasser per la parte attiva sostenuta due anni avanti contro lo nascente Stato di Israele, regalò Tiran e Sanafir all’Egitto.

Ora, per capire i motivi della restituzione di queste due isole all’Arabia, 65 anni dopo quel fatto, non ci si può fermare agli aspetti, altrimenti offensivi, di qualche miliardo di dollari dati dal Re d’Arabia all’Egitto per la sua economia in crisi, per aiutare Al Sisi in difficoltà. Occorre risalire alla Umma, prima che alla storia di amore e odio che lega l’Egitto all’Arabia, per capire il significato del gesto. La Umma, molto prima della finanza, della politica, della religione, delle sette, delle tribù è un fatto culturale. La comunità dei fedeli musulmani che li avvicina a dispetto delle distanze geografiche.

L'isola di Tiran, una delle due isole regalate dall'Egitto alla Monarchia Saudita, vista da Sharm-al-Sheikh / credits: Arnaud Chicurel - AFP
L’isola di Tiran, una delle due isole regalate dall’Egitto alla Monarchia Saudita, vista da Sharm-al-Sheikh / credits: Arnaud Chicurel – AFP

Per questo nel turbinio di poco più di un solo secolo, l’Islam si è diffuso e radicato sulla sponda sud del Mediterraneo ed è andato poi oltre, molto oltre nel Mondo. Solo da profonde radici e dal seno di una grande madre che rappresenta una unica “nazionalità” può nascere una forte civiltà come quella profetizzata da Muhammad.

Quando sembrava che la storia fosse finita con Ataturk che abolisce il Califfato (l’unica istituzione universalista del mondo musulmano) e con la vittoria dei nazionalismi, inventati ed imposti dalla presenza degli Imperi europei, la Umma sopravvive. Resta nei cuori e nelle menti del popolo che è esposto alle ventate nazionaliste panislamiche. Così è stato con la fondazione del movimento ultra-conservatore dei Fratelli Musulmani che, in Egitto, con la cameratesca collaborazione di Adolf Hitler, nasce e si radica a fine degli anni ’20 con la dichiarata intenzione di rifondare un nuovo “califfato universale”.

Così è stato con il movimento di Nasser che forse, al principio, neppure aveva capito che con la sua proposta di Repubblica Araba Unita (RAU) avrebbe potuto fondare un Impero. Così sta avvenendo ai nostri giorni con la fondazione del “califfato” autoproclamato: ISIS (Daesh in arabo), che non a caso recupera nomi e modi di quanto avvenne subito dopo la morte di Muhammad.

In questo contesto di grandi traguardi e di lunghi tempi, l’episodio dell’isolotto di Tiran può sembrare marginale, ma non lo è essendo parte essenziale del Grande Gioco Panarabo. Nasser, tra il 1956 (nazionalizzazione del Canale di Suez) e il 1962, ha l’occasione storica di creare una Repubblica Araba Unita. Il suo progetto di RAU prevede un regime laico, socialmente impegnato. Con questo progetto convince in modo fulmineo all’unificazione Egitto e Siria. Un colpo di Stato pone le premesse per una integrazione anche dell’Iraq progetto che sfuma per poco, potremmo dire per una pecca nella sottovalutazione della forza ostile alla presenza di un unico Impero arabo da parte della grande finanza anglosassone, nel solco della millenaria strategia del “divide et impera”.

Nasser, a livello strategico, pagò l’errore di non aver coinvolto con intelligenza e dovuta calma i Saud. L’errore fatale fu quello poi di accettare la chiamata in soccorso espressa dai repubblicani ribelli dello Yemen del Nord. Mandando un corpo di spedizione a sud dell’Arabia si mise contro la Casa Saud, e affossò da sé il suo progetto, in quella che alcuni chiamano “il Vietnam egiziano“. I Saud si sentirono scavalcati, e chiesero l’intervento degli anglosassoni, che non risparmiarono né sulle forniture di armi né sulle attività di intelligence.

L’Egitto di Nasser viene sempre più isolato e cade nella logica dello scontro mortale tra USA ed URSS, della logica spartitoria della Guerra Fredda. Gli americani non vogliono capire il senso profondo del nazionalismo arabo e regalano l’Egitto alla parte avversa, rifiutando di finanziare i piani di sviluppo economico di quel popolo, a partire dal progetto “faraonico” delle dighe sul Nilo.

Lasciato sostanzialmente da solo, Nasser, gioca la carta unificante dell’orgoglio arabo scatenando una guerra contro Israele. Nel 1967 si impegna in un durissimo confronto giocando proprio sull’accesso al Golfo di Aqaba, che significava anche negare il diritto ebraico alla libera circolazione dei mari. Sull’isolotto di Tiran un piccolo distaccamento dell’ONU, posto a garanzia dell’armistizio del 1956, viene fatto sloggiare dagli egiziani. Israele gioca di anticipo e tutti sappiamo come andò a finire la guerra lampo dei 6 giorni: con una umiliante sconfitta degli arabi.

Una copertina della rivista britannica Time dedicata all’allora Presidente egiziano Abdel Nasser, Mar. 29, 1963 / Cover Credit: Robert Vickrey

Dopo la bufera, occorrono anni, fino al 1973, per arrivare a una pace, fredda, ma che riassegna per la seconda volta in vent’anni il Sinai all’Egitto e che riporta a Tiran un distaccamento ONU di garanzia, composto anche da soldati italiani.

Lentamente, Arabia e Egitto si riavvicinano. Le cause sono molteplici e vanno trovate, oltre che nella Umma, nella stessa versione sunnita dell’Islam abbracciato dai due popoli. Anche se gli Al Saud abbracciano una interpretazione molto più rigida, orientata al Salafismo e siano, ovviamente, contro le forme repubblicane, il fallimento (o meglio la distruzione) dello Stato Iracheno, lascia gli sciiti iraniani pericolosamente vicini ai confini dell’Arabia. L’Egitto, con i suoi 80 milioni di abitanti è l’unica opzione valida per resistere. Al suo interno, la casta militare offre molte più garanzie della Fratellanza Musulmana, troppo ideologicamente concorrenziale per la dinastia reale degli Al Saud.

In questo contesto per “cementare” il riavvicinamento tra i due regimi cosa è meglio di un ponte da costruire sullo stretto di Tiran e a cui è già stato assegnato il nome significativo di “difesa delle due città sante”? Il primo progetto per realizzare tale opera risale al 1988, quando in Egitto era al potere Hosni Mubarak. Si parlò all’epoca di un investimento di 3 miliardi di dollari, ma il gioco valeva la candela perché un collegamento viario diretto tra le due sponde del Golfo di Aqaba, avrebbe significato bypassare Israele e ridare una prospettiva economica e geopolitica comune tra le due potenze.

Passaggio ideale del ponte che dovrebbe mettere in collegamento la penisola egiziana del Sinai con le terre dell'Arabia Saudita / credits: theguardian.com
Passaggio ideale del ponte che dovrebbe mettere in collegamento la penisola egiziana del Sinai con le terre dell’Arabia Saudita / credits: theguardian.com

Oggi l’idea iniziale si è fatta ancora più interessante in quanto viene assecondato l’immenso piano di sviluppo economico promesso al popolo egiziano da Al Sisi per mantenersi al potere. Il piano prevede, oltre al raddoppio del canale di Suez, la realizzazione di una nuova città sulle rive del Mar Rosso, con milioni di abitanti che alleggeriranno l’altrimenti insopportabile pressione demografica sul Cairo. Peraltro, anche il ritrovato alleato saudita sta pianificando la costruzione di una nuova città sulla riva opposta dello stesso Mare: KAEC, The King Abdullah Economic City.

Agli egiziani arriveranno i miliardi di dollari dal gas trovato dall’Eni nel mare Mediterraneo a nord del Canale e, di certo, anche dagli investimenti dell’Arabia Saudita, che non vuole perdere l’occasione di far transitare i pellegrini della Mecca dal Sinai.

Abdel Fatah al-Sisi, a sinistra, stringe la mano al Re Saudita Salman, dopo la siglia del patto che consegna la sovranità di Tiran al Regno Saud / credits: Sherif Abdel Minoem - AP
Abdel Fatah al-Sisi, a sinistra, stringe la mano al Re Saudita Salman, dopo la siglia del patto che consegna la sovranità di Tiran al Regno Saud / credits: Sherif Abdel Minoem – AP

Per ridurre l’impatto ecologico del ponte e dell’opera, specialmente in riferimento alle barriere coralline, si è pensato all’utilizzo dell’isola di Tiran: qui potrà sorgere uno dei piloni portanti del grande ponte sospeso. Con l’isola di Tiran tornata ai Saud, il confine sarà posto sullo Stretto, a metà strada tra le due sponde. Ed è un dettaglio importante: è il frutto di un profondo sentimento che sa quanto sia grave colpire l’orgoglio dei due grandi popoli che, se hanno intenzione di rifondare un nuovo panarabismo, dovranno farlo alla pari prima di tornare a riposare nel grande paniere Mediterraneo.