La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Affamati e torturati a morte: questo il destino di migliaia di civili e oppositori del regime di Damasco, documentato da altrettante foto che un disertore della Polizia Militare ha trafugato prima di darsi alla fuga. Autenticate da varie Commissioni d’inchiesta indipendenti, le foto costituiscono le prove per futuri processi per crimini di guerra e contro l’umanità.
Olocausto deriva dal greco e significa “brucio tutto”. Sin dal 2011, in risposta alle manifestazioni di piazza che chiedevano la caduta del regime, il motto delle truppe e dei sostenitori del Presidente Assad è stato “Assad o bruciamo il Paese”. Una minaccia ripetuta e scritta sui muri delle città, fino a diventare realtà.
Alla luce delle atrocità commesse in Siria in 5 anni di guerra e del significato del termine, l’uso della parola olocausto non è anacronistico, tutt’altro. Non è un caso se le foto che testimoniano questo “olocausto” ancora in corso, sono state esposte al Museo dell’Olocausto ebraico di Washington in una mostra dall’eloquente titolo: “Genocidio: la minaccia continua” (così come al Consiglio di Sicurezza, al Palazzo di Vetro dell’ONU, al Parlamento Europeo, al Congresso americano, all’Aja ecc..) e non è un caso se Desmond de Silva, già Procuratore del Tribunale Speciale per la Sierra Leone che ha autenticato le foto con un team di esperti, le ha paragonate alle foto dei campi nazisti. Inquietanti anche le parole di Cameron Hudson, Direttore del Centro per la Prevenzione del Genocidio al Museo dell’Olocausto, che delle foto ha detto: “Sono più estreme di ogni altra cosa che abbiamo nel nostro museo”. Come avevamo visto qui, il legame con i tempi bui dell’olocausto ebraico sono più reali di quanto si immagini: dopo la II Guerra Mondiale, Hafez Assad (padre dell’attuale Presidente Bashar) offrì rifugio ad alcuni gerarchi nazisti, tra cui uno degli ufficiali delle SS più ricercati al mondo, Georg Fischer, alias Alois Brunner. Nel 1954 Brunner riparò a Damasco e vi rimase fino alla morte (2010), coperto da un regime che in cambio di protezione potè godere dell’addestramento delle proprie truppe alle più raffinate tecniche di tortura della Gestapo, tra cui la “sedia tedesca”. Quelle stesse torture di cui le foto di Caesar sono prove inequivocabili. Ma di che foto si tratta?
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Corpi torturati a morte in fase di etichettatura nel garage dell’Ospedale Militare 601 di Mezze (Damasco). Credit to: Caesar/Human Rights Watch
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Nel 2013 un membro della Polizia Militare Siriana, incaricato di scattare foto ai cadaveri di coloro che morivano nelle carceri del governo, ha disertato portando con sè oltre 55.000 foto di oltre 11,000 persone uccise nei centri di detenzione e tortura segreti gestiti dai tanti reparti dei servizi di sicurezza e militari siriani, tutte con evidenti segni di torture e denutrizione. I corpi venivano raccolti nell’Ospedale Militare 601 di Mezze (Damasco), etichettati e smistati in fosse comuni.
Le foto, che permettono di identificare anche donne e adolescenti, mostrano corpi emaciati dalla fame, con ferite profonde, ustioni, lividi, segni di soffocamento, mutilazioni, occhi cavati. Alcune delle foto possono essere visualizzate qui e altre in questo archivio ma avvertiamo: la visione può non essere adatta a un pubblico sensibile. Basta guardarle per rendersi conto che chi le ha paragonate a quelle dell’olocausto ebraico non ha lavorato troppo di fantasia. Il governo siriano sostiene tuttavia che le foto siano false, ma commissioni indipendenti di esperti di diritto internazionale e di medicina legale le hanno autenticate e un giorno potrebbero costituire le prove per perseguire legalmente il regime siriano per crimini di guerra e contro l’umanità.
La prima autenticazione giunge nel 2014 da una Commissione indipendente di inchiesta presieduta dai giuristi Desmond de Silva e David Crane, già Procuratori del Tribunale Speciale per la Sierra Leone; Crane in questa intervista spiega come le foto “dimostrano direttamente che crimini di guerra e contro l’umanità vengono commessi dal regime di Assad” e sono “una pistola fumante” (per leggere il rapporto della Commissione clicca qui). L’inchiesta è stata condotta per conto della compagnia legale inglese Carter-Ruck, su commissione del Qatar, il cui Ministro degli Esteri visionò le foto per primo e decide di farle autenticare. Questo legame con uno dei principali antagonisti del governo siriano ha suscitato scetticismo circa la veridicità delle foto, ma le tante analisi condotte portano a un’unica conclusione: le foto sono autentiche. Anche uno studio del Network Siriano per i Diritti Umani le ha autenticate, nel rapporto “L’Olocausto Fotografato“. L’ultima autenticazione viene da Human Rights Watch (HRW), il cui rapporto “Se i morti potessero parlare” conferma l’autenticità delle 28,000 foto analizzate con la cooperazione di un team di medici legali dell’organizzazione Physicians for Human Rights. Nadim Houry, direttore del dipartimento di HRW per il Medio Oriente ha dichiarato:
“Abbiamo meticolosamente verificato dozzine di testimonianze e siamo sicuri che le fotografie fornite da Caesar siano autentiche e dimostrano in modo evidente i crimini contro l’umanità che si stanno perpetrando in Siria”.
La particolarità di questo rapporto è che per la prima volta, grazie alle testimonianze raccolte, si è riusciti a scoprire le storie di queste persone. Si è scoperta quindi quella di Ahmad Al-Musalmani, 14 anni, prelevato da un autobus nel 2012 durante un controllo e arrestato dalla Air Force Intelligence perché aveva nel cellulare una canzone anti-Assad. Lo zio, Dahi Al-Musalmani, lo ha identificato tra le foto di Caesar 2 anni dopo. “È stato lo shock della mia vita vederlo lì – ha descritto a HRW- L’ho cercato per 950 giorni. Ho contato ogni giorno. Sua madre in punto di morte mi ha detto: ‘Lo lascio sotto la tua protezione’. Quale protezione potevo dargli?”. O la storia di Rehab al-Allawi, studentessa di ingegneria 25enne e attivista, che assisteva gli sfollati in fuga da Homs; riconosciuta dal fratello tra le foto (per le foto di questi 2 casi clicca qui e qui).
In questa intervista, Caesar spiega come gli organi del regime siriano gestissero una macchina di torture di massa e uccisioni senza distinzione, dichiarando:
“Non avevo mai visto niente di simile. Prima della rivoluzione, il regime torturava i prigionieri per ottenere informazioni; ora li tortura per ucciderli”.
Il caso Caesar non è isolato. Sono diverse infatti le indagini che negli ultimi anni hanno portato alla raccolta e conseguente verifica di prove dei crimini perpetrati in Siria; ne citiamo solo alcune: le indagini della Commissione Indipendente di Inchiesta sulla Siria dell’ONU, che in un rapporto del dicembre 2013 concludeva: “Le prove indicano responsabilità ai più alti livelli di governo, tra cui il capo dello Stato”; le indagini della Commission for International Justice and Accountability (CIJA), che ha già pronti almeno 3 dossier per 3 futuri processi contro organi del regime siriano; il Syria Justice & Accountability Centre (SJAC).
Ma se come dice Crane queste foto sono “una pistola fumante” in mano al regime siriano, perché catalogare le prove dei propri crimini? Per rispondere, occorre capire la logica del regime. Come ogni dittatura che si regge sulla repressione del dissenso e dove le delazioni sono all’ordine del giorno (“anche i muri hanno le orecchie”, dice un noto detto siriano), la Siria registra e archivia ogni informazione. Il regime sospetta di chiunque e anche i propri agenti devono costantemente dimostrare la loro obbedienza agli ordini mentre sono a loro volta controllati, in una fitta di rete “spionaggio interno” che prolifera in un regime militare con decine di servizi di sicurezza e intelligence, spesso in competizione tra loro. Infatti Caesar spiega:
“I servizi di intelligence e di sicurezza non collaborano. Non sanno quello che l’altro fa. Ognuno è responsabile della propria organizzazione e lavora per servire i propri interessi. Da 50 anni la polizia militare registra [tutto], nel caso servisse ai tribunali militari. [..] Dopo l’inizio della rivoluzione e durante la guerra, abbiamo semplicemente mantenuto la stessa routine. E il regime non avrebbe mai immaginato che un giorno il nostro lavoro potesse essere usato contro di lui. I servizi di sicurezza si sentono invulnerabili. Non possono immaginare che un giorno saranno chiamati a rispondere dei loro crimini. Sanno che grandi potenze sostengono il regime. E non hanno mai pensato che queste foto potessero uscire ed essere viste dal mondo intero.”
In Siria tutte le parti in conflitto hanno commesso crimini, ma il governo di Damasco li ha implementati su larga scala con lucida programmazione come politica di governo, colpendo oppositori, civili, operatori umanitari, medici e attivisti indistintamente. Stephen Rapp, anch’egli ex Procuratore del Tribunale Speciale per la Sierra Leone che si è occupato del caso Caesar, ha dichiarato che “l’80% dei crimini commessi in Siria è attribuibile al governo siriano” e che “le prove contro il regime di Bashar al-Assad sono più solide di quelle che si avevano contro Milošević e Taylor” (entrambi condannati). Le responsabilità di questi crimini ricadono pertanto su un governo considerato legittimo che mantiene un seggio all’ONU, e con il quale la comunità internazionale sta negoziando la fine della guerra. Come ha commentato Houry di Human Rights Watch:
“Questi scatti rappresentano solo una piccola parte delle persone che sono morte sotto la custodia del governo siriano, molte sono ancora prigioniere e stanno subendo le stesse atrocità”.
Secondo cifre non aggiornate del Network Siriano per i Diritti Umani i detenuti e gli scomparsi nelle carceri siriane sarebbero circa 250,000. E forse in giornate come quella della Memoria, dove ci volgiamo con orrore al passato, dovremmo anche guardare al nostro presente perché quel “mai più” è un “oggi”.
di Samantha Falciatori