Un fermo immagine, un pregiudizio.
Per chi scrive gli anni Novanta furono gli anni della scuola elementare ed è proprio in quel periodo che avvenne il primo contatto con la politica internazionale, quando prendemmo in mano un atlante per l’infanzia. L’attenzione di entrambi venne catturata da una cartina particolare: la mappa tematica della ricchezza distribuita sul pianeta; una mappa che illustrava un mondo diviso in due parti da una spessa linea rossa. Al di sopra la prosperità, al di sotto, la miseria.
L’itinerario di questa demarcazione percorreva il confine tra Stati Uniti e Messico. Una volta nell’Atlantico, oltrepassava le Colonne d’Ercole per posizionarsi al centro del Mediterraneo fino al Mar Egeo, dove risaliva verso la Tracia così da separare la Turchia dal resto d’Europa. Giunta al Mar Nero, la linea rossa, riprendeva la terraferma per seguire lo sterminato confine russo e poi tornare nel Pacifico, dove scendeva sino a racchiudere l’Arcipelago Giapponese e da lì precipitava per acchiappare l’Australia e la Nuova Zelanda come un amo.
I paesi a Nord della linea erano considerati il Primo e il Secondo Mondo. Rispettivamente l’Occidente uscito trionfante dalla Guerra Fredda e le rovine lasciate dal gigante Sovietico. Aldilà di quel confine rosso, tutta quella galassia di paesi che, con uno dei primi eufemismi del politicamente corretto, venivano definiti “in Via di Sviluppo”. Quel Terzo Mondo a cui è seguito subito il Quarto, resosi necessario per definire quelle zone dove parlare di sviluppo era a dir poco sfacciato. E nulla è cambiato da allora poiché anche oggi si sente nominare di frequente, soprattutto nelle campagne di sensibilizzazione per gli aiuti internazionali allo sviluppo.
Illustrare il mondo del 1995 ancora come diviso tra Nord – Sud, si confermava una semplificazione fortunata. Questa particolare demarcazione spaziale poteva, a sua volta, rimandare a un clima specifico per ciascuna delle due zone. Ed ecco il Nord associato ad ambienti temperati, favorevoli alla produzione industriale e il Sud flagellato da fattori climatici estremi.
Le peculiarità ambientali, permettevano a loro volta di aggiungere ulteriori caratteristiche che andavano a completare il quadro di un Nord sostanzialmente equilibrato, industrioso, ricco ma ordinario poiché prigioniero dei suoi ritmi di produzione, a cui faceva da contraltare un Sud sì povero, ma esotico, intrigante e dal fascino misterioso. Ancora genuino e naturale, “ricco nelle cose che contano davvero”.
Ma a soli vent’anni dalla percezione di un Nord prospero di per sé sono in molti a provare un misto tra sfiducia e paura proprio per la stessa porzione di globo che si pensava tanto stabile. Tutto ciò senza aver sofferto catastrofi naturali o umane particolarmente gravi.
Chi è riuscito, laddove persino due guerre mondiali avevano fallito, a scardinare la fiducia verso il futuro?
La risposta è a disposizione di tutti.
Una divisione spaziale e simbolica così rassicurante, non richiedeva alcuna messa in discussione. Non era necessario domandarsi se davvero quel mondo stabilmente spaccato tra Nord e Sud nel 1995 corrispondesse alla realtà.
E se ad essere inaccurata, invece che la percezione, fosse – allora come oggi – la nostra abilità di riconoscere i mutamenti che investono il pianeta?
Quanti tra noi potrebbero affermare con certezza che vent’anni fa la Grecia fosse più ricca degli Emirati Arabi Uniti e l’Irlanda di Taiwan? Speculazioni che ai cittadini del 1995 apparivano poco importanti, ma che tuttavia celavano domande che se poste, avrebbero aiutato nella comprensione di come la realtà muti velocemente. E forse oggi avrebbero mitigato il senso di frustrazione di quanti osservando intere metropoli sorgere dai deserti dell’Arabia (nel giro di qualche decade) non possono che constatare che in Europa si arranca per costruire una ferrovia.
Se quella linea di demarcazione non rappresentava dunque una relazione basata su uno sviluppo economico a senso unico, cosa testimoniava realmente? Per dare una risposta occorre un’altra domanda: da dove si è originato lo sviluppo, il benessere e la ricchezza che hanno giustificato una percezione di questo tipo?
Se cercassimo la risposta all’interno della disciplina economica ci condanneremmo a non trovarla, data la mole d’informazioni che saremmo costretti a prendere in considerazione. Proviamo allora a ipotizzare che la reale discriminante tra Nord e Sud non sia stato lo “sviluppo”, ma il potere. Avrebbe senso; il potere è l’elemento che non solo racchiude la forza economica, ma che in ultima istanza filtra e distribuisce quelle risorse scarse di cui l’essere umano necessita e per le quali gli Stati entrano in conflitto tra loro.
Per più di 400 anni una regione limitata nel mondo ha accumulato un surplus di potenza mai visto nella storia umana e ha dominato sul resto del pianeta che modellava a suo piacere; un condizionamento che ha riguardato anche le menti di quanti potevano vantarsi di farne parte.
Se facessimo cadere il velo che nel nostro immaginario separa il Nord e il Sud del mondo, vedremmo come quella linea rossa simboleggi una divisione tra coloro che percepiamo come dominanti rispetto a tutti gli altri che – loro malgrado – paiono dominati.
Pensiamo alla Corea del Sud, situata al di sotto della linea, nonostante nel 1995 fosse già un paese in pieno sviluppo economico. Multinazionali rampanti come Samsung o Hyundai, già presenti sui mercati mondiali, non erano comunque sufficienti a cancellare nell’immaginario collettivo occidentale il marchio di “ex colonia” del Giappone, che invece troviamo sopra la linea, nel Nord del mondo, proprio grazie al suo passato di colonizzatore di diretta imitazione delle potenze europee dell’epoca.
La stagione coloniale e dell’espansione globale occidentale tuttavia è finita da tempo; perchè dovrebbe ancora riguardarci se solo i più anziani tra noi ne sono stati testimoni? Dato che il definitivo declino del vecchio mondo coloniale è figlio del secondo dopoguerra.
Riprendiamo per un’istante le associazioni mentali attribuite a Nord e Sud del Mondo nel 1995.
Tra il XVI e il XIX secolo una giovane potenza europea coloniale per poter esercitare il suo dominio su porzioni di territorio incomparabilmente più estese del suo, aveva bisogno di uomini motivati ad abbandonare le proprie case per imbarcarsi letteralmente verso l’ignoto. Noi occidentali contemporanei potremo anche decidere di fantasticare su altri paesi, ma restiamo ancora influenzati dalle argomentazioni utilizzate in passato per convincere i nostri antenati a partire.
“Mollo tutto e mi apro un baretto ai Caraibi!” non è solo il classico sfogo di mezz’età, ma la riproposizione contemporanea del desiderio dei nostri nonni di calcare le terre esotiche e misteriose raccontate da Kipling e Salgari, non troppo diverse, a loro volta, dal mitico “El Dorado” promesso alla meglio gioventù per spronarla a imbarcarsi su di una bagnarola dove la sola cosa esotica che certamente avrebbero scovato sarebbe stata lo scorbuto.
Nel caso che fossero riusciti ad arrivare a destinazione, questi pionieri desiderosi di avventura e ricchezze, avrebbero avuto a che fare con gli abitanti delle terre da dominare. Per le potenze europee di allora, votate all’espansionismo territoriale era necessario rimuovere dal cuore dei coloni qualsiasi eventuale colpa etica e la sola via per riuscirci era privare le popolazioni indigene (da assoggettare) della loro umanità. I popoli del Sud per lungo tempo rappresentarono l’oggetto del contendere, piuttosto che gli interlocutori con i quali rapportarsi. La xenofobia (pur parlando all’uomo e alla sua storia) che in Occidente ha contraddistinto l’epoca moderna e contemporanea, era motivata dall’espansione territoriale e da ragioni di cruda convenienza economica, e non dalle teorie pseudo scientifiche e pseudo sociali che sarebbero sorte molti secoli più tardi.
E se pensiamo di esserci scrollati di dosso una così sconfortante visione dell’Altro, solo perché siamo affascinati dalle idee del multiculturalismo basta accendere la televisione e ascoltare un qualsiasi dibattito dove si parli di flussi migratori. Con un po’ di attenzione non potremo non accorgerci che non si fa altro che rievocare inconsapevolmente i vecchi dibattiti tra gli imparruccati intellettuali e dignitari del XVII secolo sul “mito del buon selvaggio in opposizione al terrore verso il barbaro non civilizzato”, con i rispettivi sinonimi di “risorsa” e “minaccia”. Aldilà delle posizioni, rimane una costante, ovvero che i diretti interessati dal fenomeno, continuano a non esistere come esseri umani.
Esempi come questi ne possiamo fare all’infinito, in quanto si tratta di combinazioni illimitate che alimentano l’illusione tutta occidentale di appartenere ancora a un’epoca ormai passata, anzi, a più epoche del passato, mischiate confusamente tra di loro.
Per tale ragione, quanto prima abbandoneremo ogni associazione di pensiero e di linguaggio legata a Nord e Sud del Mondo, tanto presto, e forse meglio, potremo tornare a guardare il pianeta per come appare ovvero in mutamento; eventualmente provando ad esaudire i desideri del 1995.
Guardare alla realtà è un’urgenza, dato che intere regioni erroneamente associate al “Sud” al Terzo mondo, stanno attraversando quello stesso paradigma di sviluppo ben noto all’occidente, in un lasso di tempo molto minore. In queste zone però gli scompensi che i nostri antenati hanno patito a causa degli effetti provocati da fenomeni quali industrializzazione e inurbamento sono amplificati e portati all’esasperazione.
La nostra esperienza storica potrebbe fare scuola, ma solo a condizione che si guardi a questi individui non più con gli occhi del benefattore che si appresta a concedere la propria carità (nella migliore delle ipotesi), ma con occhi capaci di riconoscerli come interlocutori alla pari, i cui destini sono indissolubilmente legati ai nostri.
Esiste una minaccia forse ancora più grande al nostro ostinarci a ragionare secondo il criterio di divisione Nord-Sud. Il prospero mondo a Nord della linea ci autorizza a pensare che il benessere sia una componente intrinseca al nostro modello sociale. L’equiparazione tra Nord e “occidente” in quella cartina sulla distribuzione della ricchezza ci tranquillizza del fatto che prosperità e benessere rimarranno in mezzo a noi.
Oggi, invece, quel surplus di potere (assicurato in passato dall’espansione) da cui sgorgava il benessere, scivola sempre di più dalle nostre mani. Quello che si riteneva essere l’unico polo di prosperità abbarbicato a Nord e contro il quale premeva il Sud, si sta frantumando in una moltitudine di poli d’intensità minore, che come magneti cercano di attirare a sé la più ampia porzione di territorio periferico e di risorse della potenza.
Il mondo sembra destinato a crescere in questo secolo, con una sola eccezione. Le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale su Europa, Stati Uniti e Giappone, ci mostrano come sarà proprio il Nord a procedere incerto verso il futuro, apparentemente incapace di progettare una nuova strada per lo sviluppo economico ora che la spinta garantita dalla sua espansione è definitivamente terminata.
L’attuale crisi economica non ha fatto altro che mostrare la totale impreparazione di noi occidentali di fronte a problematiche che non possono più essere gestite con l’aiuto della supremazia geopolitica.
La contemporaneità richiederebbe di riconoscere l’esistenza di diversi poli di potere globale. Far finta di non capire e aspettare di vedere cosa potrebbe accadere (peraltro in uno scenario dove i mutamenti dipendono e dipenderanno sempre meno dal Nord), potrebbe addirittura portarci a non essere neanche più uno di questi poli. E se dalle vene del potere scorre anche la ricchezza, neanche il peso del retaggio coloniale basterà a salvarci dal cimitero della Storia dove riposano coloro che furono grandi prima di noi e che non riuscirono a ripensare e, di conseguenza, ripensarsi, in modo tale da garantirsi la sopravvivenza.
Mirko Annunziata e Eliza Ungaro